Chi è l’italiano dell’anno, l’uomo del 2013?
In realtà, per Famiglia Cristiana sono circa
6 mila gli italiani dell’anno, sono i lampedusani,
è Lampedusa tutta insieme,
con le sue storie di pazienza infinita di
fronte a mille problemi interni irrisolti,
ma capace di darsi, offrirsi come esempio
per chi viene da fuori, da lontano,
con molte speranze e troppe paure da cancellare.
Lampedusa, oggi, è l’isola che non c’è e basta
un breve soggiorno per capire che il luogo più lontano
dall’Italia, più a sud perfino di Tunisi, più
vicino all’Africa che a noi, è un condensato di
contraddizioni senza pari.
L’isola che non c’è (almeno
per lo Stato) è al contempo l’isola dove tutti,
ma proprio tutti, finiscono per arrivare. Perfino
il pesce palla maculato, velenosissimo abitante
dell’Oceano indiano, ha attraversato il Canale di
Suez e si è diretto qui, a Lampedusa. Fuori dalle pescherie
del porto, in bella vista, c’è la foto del “ricercato”,
con l’indicazione: “Avvertire immediatamente
le autorità, nel caso in cui qualcuno se lo ritrovi
nelle reti”.
Fuga dalle dittature
Come i pesci palla maculati
emigrati da Suez, a Lampedusa tentano di rifugiarsi
e approdare i reietti fuggiti dalle dittature, dalle
guerre, dalla sopraffazione, dalla povertà che sa
uccidere anche più delle armi stesse. Ingenui, speranzosi,
hanno saputo che c’è “la porta d’Europa”
pronta ad aprirsi per loro. Ma troppo spesso non
sanno che prima dell’approdo potrebbe esserci la
condanna ad affogare, a morire davanti a quel pezzetto
di terra in mezzo all’acqua. Giungono dalla
Libia, dalla Siria, dall’Eritrea, da ovunque credono
di poter affrontare il viaggio.
«Ho iniziato il mio lavoro qui il 26 settembre»,
racconta il capitano dell’Esercito Leandro Giordano.
«Ho avuto giusto il tempo di rendermi conto
della situazione e il 3 ottobre c’è stata la tragedia.
Ero qui per una missione di soccorso; è diventata
una missione di recupero». Sì, di recupero di corpi,
366 per la precisione. «Un’esperienza che non
auguro a nessuno». Giordano comanda un centinaio
di soldati con il compito di “sorveglianza e
controllo del Centro di soccorso e prima accoglienza”,
il luogo dove chi è riuscito ad arrivare vivo
a Lampedusa viene condotto. Momentaneamente,
dicono. L’Esercito ha anche il controllo del
sito di stoccaggio dei barconi, quello che tutti chiamano
“il cimitero delle barche”.
Sta davanti al porto che divide la città da
quello sfacelo. Da una parte le case dei lampedusani,
dall’altra i relitti dei naufragi. Hanno cominciato
a metterli lì provvisoriamente e si sa che niente
è più definitivo in Italia della parola “provvisorio”.
Chi viene dalla Sicilia guarda quegli avanzi di
barche e pensa che stiano lì come un monito per
tutti, perché solo vedendo ci si può rendere conto
che quelli che chiamiamo con eufemismo viaggi
della speranza sono solo un tradimento alla dignità
delle persone.
Ma Giusi Nicolini, sindaco dell’isola, è dura e
al contempo disarmata: «Il prezzo che si paga sul
tema dei diritti umani non può pagarlo Lampedusa.
L’area dei barconi non basta più; era un rifugio
momentaneo ed è diventato un immondezzaio a
cielo aperto. L’impatto ambientale è terribile».
Già: topi, legni marciti, ferraglia arrugginita, perfino
parti in amianto, a quanto dicono i lampedusani.
Un cimitero delle barche in un luogo che, prosegue
il sindaco, «non ha un obitorio né celle frigorifere
» per i corpi delle persone “recuperate”, secondo
quella dizione obbligatoriamente burocratica
del capitano Giordano.
L’AEREO PER PARTORIRE
E tutto questo è solo l’inizio
di quello che non si vede ma c’è, sull’isola che
non c’è. Non c’è un ospedale, per esempio, e un
parto può costare anche 10 mila euro a famiglia.
Perché bisogna prendere l’aereo per la Sicilia
per far nascere un lampedusano, due voli soli al
giorno, alle 7 e alle 16.
Le donne prendono quel piccolo
aereo, un’ora di volo per Palermo, come fosse
un autobus, ma a che prezzo! Con loro, qualche parente,
ci mancherebbe. E magari dalle doglie al
parto passa tempo, qualche ora, qualche giorno. E
allora aggiungiamoci anche i costi dell’albergo
per chi vuole stare vicino a chi vuol dare la vita.
Ma il sindaco dice no all’idea di un reparto maternità
e spiega: «I costi sarebbero troppo elevati.
Non conviene né dal punto di visto economico né
da quello professionale. Chi ci manderebbero qui,
se lo immagina?Meglio un rimborso delle spese;
ci stiamo pensando».
E mentre pensa al rimborso,
butta lì che «non c’è rete fognaria né idrica».
Nell’isola che non c’è si paga più che altrove,
un altrove talmente lontano da non riuscire a immaginare
i problemi strutturali di Lampedusa. Sapete
quanto costa la benzina? C’è un solo distributore
di carburante: 2,20 euro al litro. Perché? Ancora
Giusi Nicolini: «Gli autotrasportatori siciliani
fanno cartello».
Eh, sì: c’è il trasporto, una decina
d’ore di traghetto, per cui, se volete la benzina, il
prezzo è questo, prendere o lasciare. Il commento
del sindaco è lapidario: «Questa è un’isola che deve
ancora entrare in Italia».
Ma i lampedusani ci entrano per obbligo, in
Italia.
Lo fanno con le scuole, per esempio. C’è solo
un liceo, lo scientifico, e chi dopo le medie
vorrebbe fare altro deve andare in Sicilia. E giù
ancora soldi, soldi, sempre soldi. Eppure, proprio
queste difficoltà favoriscono un modo di pensare,
di comportarsi, di essere, che è da esempio per tutti.
L’accoglienza è la parola più di casa, qui.
Racconta don Mimmo Zambito, parroco di
Lampedusa: «Proprio per la peculiarità di quest’isola, gli abitanti hanno la percezione
della fatica di chi arriva; è una comunità, la nostra,
che avverte gli stimoli ma che chiede anche
corrispondenza di impegni».
Don Mimmo è parroco
dal 18 ottobre scorso; dunque, è arrivato proprio
nel periodo seguente le ultime tragedie: «Sì,
ma ero già qui nei giorni del recupero delle salme,
perché stavo partecipando a un convegno regionale
della Caritas. E ho notato un atteggiamento naturale
di comprensione e accettazione di una
convivenza così difficile e improvvisa, e non ci sono
stati momenti di tensione. Eppure, lo stress
emotivo era enorme.
Ci vuole fede, cultura, psicologia
per non perdersi. Allora dico che c’è una “grazia
particolare” in quest’isola». Ma può bastare?,
chiediamo a don Mimmo, che sorride e capisce:
«Si riferisce alla politica, forse? È questo che vuole
sapere? C’è il vuoto della politica, c’è. Ma il 90 per
cento di quello che rimproveriamo all’Europa dipende
da noi. Giochiamocela con coraggio la carta
dell’isola, dunque. L’arrivo del Papa ci apre a
un’interpretazione del futuro e suggerisce un metodo:
leggere la cronaca e, partendo da lì, fare».
Il progetto di una biblioteca
E c’è chi fa. Piccole
cose, in apparenza, perché l’isola che non c’è appare
molto, scompare per molto e poi riemerge. Chi
è partito da qui si è portato la sua isola non solo
nel cuore, ma anche sul lavoro. Come Giovanni Vescovi,
che si è laureato a Milano all’Università Bicocca.
In cosa? Sociologia dell’emigrazione, guarda
caso, con una tesi proprio su Lampedusa. O
Francesco Vigneri, altro laureato in Sociologia,
che a Palermo tiene un master sulle vicende lampedusane.
Ma se c’è chi va via, c’è anche chi arriva.
O si occupa di chi vorrebbe andarsene.
Come
Ibby, International board on books for young
people, organizzazione non profit di oltre 70 Paesi,
impegnata a far conoscere i libri a bambini e ragazzi.
Per Lampedusa hanno progettato l’apertura
di una biblioteca. I locali e le autorizzazioni comunali
ci sono.
Loro ci mettono 300 volumi senza parole,
«perché li possano leggere bambini italiani e
migranti», dicono.
Così come Silvia Tempesti, milanese, assistente
sociale specialista, laureata all’Università Cattolica
in Scienze dei fenomeni sociali e processi organizzativi,
volontaria tramite la Caritas di un progetto
di Save the children per i bambini degli immigrati.
È rimasta nell’isola anche dopo l’emergenza
di quelle terribili giornate di ottobre:
«Quando il progetto è terminato ho cominciato a
collaborare con l’assessore ai servizi sociali. Se prima
vivevo in un mondo a parte, fatto di bambini,
giochi, sorrisi ma anche dure testimonianze,
adesso vivo la vera Lampedusa, con i suoi problemi
e le sue realtà. Qui non c’è solo il problema immigrazione
e ad avere bisogno d’attenzione non
sono solo i bambini migranti, ma anche quelli
lampedusani che non hanno punti di ritrovo. Non
ci sono oratori o centri d’aggregazione».
I lampedusani, però, amano la loro isola che
non c’è. Lo dimostra anche Antonino Taranto, autore
del volume Breve storia di Lampedusa, edito
dall’Archivio storico Lampedusa, associazione culturale
impegnata in quel settore che ci ostiniamo
a chiamare memoria storica. Chi ci lavora conserva
e diffonde immagini e scritti affinché Lampedusa
diventi l’isola che c’è. Per tutti, nessuno
escluso. Così come fa, in chiave più turistica, ma
ugualmente utile, Gian Carlo Troiani, editore di
L’isolabella, un quindicinale d’informazione in
estate, mensile d’inverno, che ha dato alle stampe
un volume dopo la visita di papa Francesco, Benvenuto
tra gli ultimi - Dall’invasione alla vergogna,
scritto da Calogero Maria Sparma e Maria Veronica
Policardi, con foto di Mauro Buccarello.
Anche i programmi scolastici vivono in funzione
della realtà odierna, grazie alla fondazione Migrantes,
organismo della Cei nato per assicurare
assistenza religiosa, accoglienza fraterna e convivenza
rispettosa dei diritti umani dei migranti. Migrantes
ha proposto alle scuole “Il viaggio della
vita”, un progetto educativo e formativo per i ragazzi,
in un programma triennale che va dalla
quinta elementare alla terza liceo. “Il viaggio della
vita” è il racconto dell’esperienza di chi è approdato
a Lampedusa; quest’anno riguarda la storia
di un giovane proveniente dalla Costa d’Avorio. Il
fine è far conoscere le molte ragioni di questo
viaggio della speranza, oltre a quello di formare
giovani animatori interculturali che faranno pratica
con i ragazzini delle elementari. Germano Garatto,
esperto di psicosociologia delle migrazioni
e formatore alla comunicazione interculturale, si
dice soddisfatto del primo impatto: «Il coinvolgimento
è notevole: 25 insegnanti hanno accettato
il programma e le famiglie dei ragazzi sono favorevoli.
L’esperienza di Lampedusa servirà a creare
nuove esperienze alternative in Europa».
Non sembrano badarci, ma sotto sotto questi
isolani hanno piena coscienza di essere gli italiani
del 2013. Il capitano Giordano non può che
ripetere quanto i lampedusani abbiano fatto per
rendersi utili. E loro continuano a fare, come il 3
dicembre scorso, quando hanno organizzato una
processione fino alla spiaggia per ricordare a distanza
di due mesi l’ultima tragedia. Un’altra testimonianza
di chi non vuole arrendersi, ma si rimbocca
le maniche e dà il buon esempio.