C’era una volta un piccolo
luogo, un puntino
sulla cartina
dell’Europa, un niente
in mezzo al mare,
un’isola di soli venti
chilometri quadrati,
bizzarria rocciosa che
dal profondo del Mediterraneo si erge fino a 130 metri d’altezza. Oggi è un
simbolo della Storia: è Lampedusa,
l’approdo dei disperati, dei diseredati,
di chi cerca salvezza da più inferni
sparsi nel mondo.
«Ho scelto l’isola come avamposto
mentale». È Gianfranco Rosi a parlare,
il regista in concorso al Festival
di Berlino con Fuocoammare, due ore
d’immagini e storie che s’incrociano;
sono le storie dei migranti salvati e di
quelli morti, di un lampedusano di 12
anni e di un medico.
«Sono stato a Lampedusa per un
anno circa, ho preso una casa in affitto
e devo ringraziare Giuseppe Del Volgo,
mia guida locale e aiuto regista; m’ha
aiutato a capire l’isola per raccontarla
», dice Rosi. Il suo ultimo lavoro era
stato Sacro GRA, il documentario che
ha vinto la Mostra del cinema di Venezia
nel 2013. Ora è la volta del Festival
di Berlino con Fuocoammare, che esce
nelle sale il 18 febbraio.
«Ma il film è già stato venduto in
Svizzera, Olanda, Belgio, Francia, Gran
Bretagna», puntualizza il regista, finalmente
a Roma, nella sua casa-studio di
Trastevere, a pochi passi dal carcere di
Regina Coeli. «Non ho mai tempo per
mettere a posto la casa, vivo più altrove
che qui». Come a Lampedusa, dove
è stato un anno, oltre a sei settimane
su una nave della Marina militare, la
Gigala Fulgosi, impegnata nella vigilanza
del Mediterraneo.
Fuocoammare è un film necessario
per non abbassare l’attenzione su africani
e asiatici che fuggono da guerre,
repressione, violenza, fame, cercando
un primo approdo europeo. Dice
Rosi: «L’isola è il simbolo della
tragedia, lo sappiamo, ma volevo mostrare
anche la vita quotidiana dei
lampedusani, in particolare quella di
Samuele, un ragazzino che studia, va a
scuola, cerca di imparare a stare in barca,
gioca, costruisce onde; che vive,
insomma, mentre dal mare arrivano
eritrei e nigeriani, libici, somali e siriani
in condizioni spesso disperate».
LA FORZA DELLE EMOZIONI. Niente finzione
nel film di Gianfranco Rosi, solo
realtà, quel tipo di realtà che non si dimentica,
una volta vista. «Il linguaggio
dei documentari è cambiato rispetto
al passato. Oggi è più personalizzato,
non si filma più soltanto per mostrare.
L’autore deve saper trasformare la
realtà che filma, deve scuotere attraverso
le emozioni».
E di emozioni il film è pieno, dall’inizio
alla fine. Emoziona Samuele, il
suo modo di parlare, il suo essere
già pronto a una vita da adulto, con
“l’occhio pigro”, quell’ansia in petto che
non teme di confidare al medico e quella
capacità di ascoltare i suggerimenti
dei grandi su come si va per mare; una
cosa che deve diventare normale anche
per lui, che in acqua invece sta male.
E le emozioni continuano con i
racconti di chi si è salvato e nel centro
d’accoglienza, quando si sente chiedere
da dove venga, risponde cantando.
Canta che ha rischiato di morire
nel Sahara, e poi anche in Libia, e che
è partito per Lampedusa perché «là
sarei morto certamente. Qui, forse».
Perché basta un forse a dare speranze
a chi non ha più nulla da salvare. Rosi
ha il rispetto di chi sa di dover registrare
per immagini le sensazioni. Le
filma nella loro naturalezza: «Non
faccio dire nulla», basta la realtà. «Ero
sulla nave; avevamo ricevuto un S.O.S.
quando vedemmo un barcone. Capimmo
che non era quello che cercavamo
e così abbiamo cambiato direzione».
Un barcone con 150 persone
allo stremo. Ma sotto, nella stiva,
Rosi e gli uomini della Gigala Fulgosi
trovano 40 morti. «Mi sono trovato
davanti alla tragedia. Filmavo il barcone,
sentivo le urla di paura, vedevo
donne e uomini piangere. Sono andato
in crisi: come mi potevo rapportare
con la cinepresa in un momento del
genere? Anche il mio rapporto col film
si era congelato. Poi scesi nella stiva...».
Rosi ha fatto scendere anche noi
spettatori in quella stiva. Per vedere
l’orrore, ma anche cosa fanno gli uomini
impegnati a portare quei corpi
senza vita per l’ultimo viaggio. Mentre
altri, sulla nave, ispezionano i vivi,
cercano di capirne almeno la provenienza,
e i medici provvedono a una
prima visita sommaria. Le emozioni
non finiscono, perché in Fuocoammare
c’è quel medico che ancora non si è
abituato a guardare i morti e si divide
tra un’ecografia a una profuga che
attende due gemelli e i corpi di chi la
vita l’ha perduta. «Oggi», dice Rosi, «il
Mediterraneo è una tomba d’acqua,
ma temo sia solo l’inizio. Fu scioccante
quando scoprimmo l’Olocausto
attraverso i filmati, ma era la fine di un
incubo. Quello di oggi, invece, è solo
l’inizio. È un nuovo olocausto».
Un film duro? Sì, anche. Ma è soprattutto
un film compassionevole e
necessario. E se lo vedranno anche negli
altri Paesi d’Europa, forse all’estero
capiranno meglio quanto l’Italia stia
facendo e quanto la parola “aiuto” debba
diventare un passaporto di speranza.
Quella speranza di futuro che nutre
il piccolo Samuele: all’inizio del film
costruisce onde con cui uccidere gli
uccellini. Alla fine, va ad accarezzarli,
parlando loro delicatamente.