"Quest’isola è diventata una piattaforma dove risolvere tutte le fragilità e noi non ci stiamo". Don Stefano Nastasi, parroco di Lampedusa da cinque anni ("Proprio gli anni di fuoco", ricorda), ha le idee chiare: “Perché se è vero che Lampedusa per posizione geografica è un luogo di transito, è anche vero che non può diventare un parcheggio".
Il riferimento, naturalmente, è agli immigrati, che qui continuano ad approdare alla ricerca di una vita migliore. L'ha ripetuto tante volte don Stefano alle Istituzioni: «Non lasciateci soli, perché non è solo una questione economica. I lampedusani necessitano di vicinanza. Non si possono tenere gruppi fermi qui per 40 giorni, con il risultato che nel centro, costruito per 300 persone, ce ne sono sempre 800 o 1.000, con tutti i problemi che il sovraffollamento comporta. Nel centro di Lampedusa, i migranti devono essere solo identificati, e poi vanno trasferiti. In questi vent’anni, dacché l'immigrazione è cominciata, ho sentito tante promesse, ma ho visto più che altro indifferenza e menefreghismo. Non bastano le risposte di presenza militare dello Stato. Lo Stato dovrebbe essere la sintesi di un popolo. Invece non dimostra la ferma volontà di risolvere i problemi. Non si può chiedere troppo alla nostra isola, che vive già i suoi problemi per il sostentamento della popolazione locale".
Se una donna deve partorire, deve prendere l’aereo per la Sicilia. La stessa cosa se qualcuno si fa male e ha bisogno di un ortopedico. Neppure una Tac si può fare a Lampedusa. E, per fortuna che c’è l’elisoccorso (ne è priva invece Linosa, 400 abitanti, l’altra isola che con Lampedusa fa Comune, e dove opera padre Ignazio Giunta) perché, specialmente d’inverno, quando il mare è grosso, la nave non arriva e allora scarseggia anche il cibo. È evidente che, se c’è un budget per una popolazione stimata sui 5.500 abitanti, e vi si caricano altri 1.000 immigrati in situazione di fragilità, gli equilibri saltano, la popolazione locale si scoraggia e aumenta il rischio di tensioni.
«Se parliamo di transiti, è più facile portare certi pesi. Se invece parliamo di parcheggi a tempo ideterminato, tutto diventa impossibile, perché si manda in fibrillazione il ritmo della vita quotidiana dell’isola. Si deve trovare una formula completamente nuova in termini di accoglienza e di integrazione. Creare grandi numeri provoca soltanto risposte negative, bisogna diluire i flussi nelle piccole realtà, così che ciascuna porti una parte del peso. Stato e Regione si rimpallano sempre responsabilità e competenze. Vengano qui a fare un Consiglio dei ministri e decidano una volta per tutte a chi tocca fare cosa», riprende con fermezza don Stefano.
Ma ci sono anche le responsabilità dell’Unione Europea. Il sindaco di Lampedusa e Linosa, Giusi Nicolini, puntando l’attenzione sul numero dei morti, sempre superiore a quello dei corpi che il mare restituisce, ha usato parole dure: «Sono sempre più convinta che l’Europa consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente».
Le parole del parroco, coadiuvato nell’opera pastorale dal vice, padre Giorgio Casula,suonano ancora più significative alla luce del Messaggio di papa Benedetto XVI, per la 99a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, Migrazioni: un pellegrinaggio di fede e di speranza, appena celebrata: “Il diritto della persona ad emigrare”, si legge nel Messaggio, “è iscritto tra i diritti umani fondamentali, con facoltà per ciascuno di stabilirsi dove crede più opportuno per una migliore realizzazione delle sue capacità e aspirazioni e dei suoi progetti”.
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“Nel 2011”, aggiunge don Stefano, “si è parlato molto di emergenza perché in poco tempo gli arrivi erano aumentati in maniera esponenziale. In quei giorni c'erano 5.000 immigrati, tanti quanti gli abitanti. Ma non è che oggi i problemi siano stati risolti. I lampedusani affrontano una quotidiana realtà di soccorso e di sostegno. Non si sono mai tirati indietro. Durante le recenti feste natalizie, chi usciva dal centro, veniva accolto dalla gente, che offriva quello che poteva. Ma più ancora è importante è incontrarsi e far sentire l’altro portatore della stessa dignità. Durante le Feste mi sembrava di essere a Betlemme, con gli immigrati che incarnavano l’icona della sacra famiglia. Cercano un rifugio, un riparo; idealmente, Lampedusa è la loro grotta. Per noi non sono mai stati ospiti, ma sempre persone di famiglia. La mia casa è la vostra casa, ho detto loro quando la sera di Natale ci siamo ritrovati nel piazzale della chiesa per un momento di condivisione. Perché la Chiesa è una e il Padre è uno. Non dimentichiamo che lasciare la propria famiglia, la propria terra, è sempre una sofferenza. Abbiamo pregato il Signore perché realizzi i loro sogni. E allora, nei loro occhi, dove prima si leggeva solo amarezza, ho visto la speranza».
- Un'esperienza che fa pensare alla migrazione anche come viatico per il dialogo interreligioso...
"Io candiderei Lampedusa per questo, in quanto è il cuore del Mare Nostrum. Transito di popoli, ma anche crocevia di culture, tradizioni e, appunto, religioni. Abbiamo cantato le novene tutti insieme, autoctoni e immigrati, anche con i musulmani e, il 7 gennaio, Natale ortodosso, abbiamo aperto la chiesa ai circa 200 fra etiopi ed eritrei per la preghiera guidata da loro, e poi con loro abbiamo festeggiato. E il nostro vescovo li ha voluti alla celebrazione del giorno dell'Epifania. Quest’isola è un incrocio di persone diverse che, incontrandosi, possono provocare qualcosa di positivo e lanciare un messaggio forte. L’abbiamo già sperimentato con lo sport, facendo giocare a calcio ragazzi di vari Paesi, un'iniziativa che riproporremo presto. Vogliamo che da questo riparta l'immagine di un Mediterraneo capace di dialogare".
- Ma quando gli immigrati di varia origine arrivano a Lampedusa, sono già in tensione tra di loro?
"Per forza. Noi siamo i testimoni primi di situazioni di guerriglia che avvengono dall'altra parte del Mediterraneo. Qualche giorno fa, per esempio, è scoppiata una rissa fra somali ed eritrei. Li abbiamo aiutati a creare una forma di convivenza. È chiaro che le loro difficoltà e animosità, a volte decennali, se le portano appresso, ma va fatto loro capire che è doveroso calmare queste tensioni, se vogliono iniziare qui una vita nuova. Sennò rischiamo che si creino i ghetti".
- È cambiata negli anni l’opinione dei lampedusani rispetto ai continui arrivi?
«Il lampedusano è cambiato, come è cambiato anche il fenomeno. Parliamo di un ciclo di immigrazione che dura da vent’anni: all’inizio i flussi e i numeri erano inferiori, poi hanno avuto un’accelerata, anche a seguito delle guerre e dei conflitti intorno al Mediterraneo. È cambiata anche la legislazione. La comunità di tutto questo ha risentito e risente, ha dovuto fare i conti con una situazione che diventa emergenziale o no, a seconda del Governo di turno. Il canto di un poeta locale dice più o meno così: Quando vedo in lontananza una barca che si avvicina, aspetto che un passeggero entri nel mio giardino per cambiargli il destino. Ma, entrando nella mia casa, è lui che ha cambiato il mio”.
- Di tutto questo, Lampedusa ha risentito anche dal punto di vista turistico. Oggi com'è la situazione?
"Lampedusa ha recuperato alla grande; il bello di quest'isola è che riesce a rigenerarsi. Non si nasce qui, ma si rinasce, tutti".
Romina Gobbo
Un braccio si sporge nell’instabilità di un’imbarcazione squassata dalle onde e afferra quello del soccorritore, che vede cadere dalla manica cicche di sigarette. Poi è tutto una corsa a salvare più vite possibile di quei 300 tunisini e libici arrivati a Lampedusa in un giorno di febbraio 2011: qualcuno sulle imbarcazioni, qualcuno tra le onde del mare, in un sussulto tra vita e morte. Più tardi il ragazzo spiegherà: “Il mare è sacro e guai a buttarvi qualcosa dentro. E’ natura, è espressione di Allah”.
E’ uno degli episodi raccontati nel volume Lampedusa. Cronache dall’isola che non c’è, edito da Ensemble e firmato da due giornalisti, Tommaso della Longa e Laura Bastianetto, rispettivamente il portavoce e una volontaria della Croce rossa italiana. Le storie, raccontate in prima persona, intrecciano la vita di profughi di diversi Paesi dell’Africa con la vita di agenti, medici, volontari, abitanti dell’isola del Sud Italia che sembra esistere solo nelle emergenze mediatiche. Raccontano l’umanità, tra nuda cronaca e lievità letteraria. Leggi, vicende politiche e geopolitiche sono sullo sfondo: non c’è analisi ma il grido di chi è scappato da soprusi e violenze e si ritrova su una brandina a chiedere perché “Lampedusa non è la porta d’Europa che tutti dicono” e perché “qualcuno viene lasciato andare e qualcuno viene rimandato indietro”.
Leggendo prende corpo un pensiero: è doveroso velocizzare le procedure per la richiesta d’asilo. Manca la voce dei tantissimi che il mare ha trattenuto: “La cosa più triste", dice un giovane medico, "è che nessuno conosce i loro nomi”. Un volontario racconta lo stupore di vedersi offrire la merendina appena distribuita da un uomo soccorso poche ore prima e descrive “lampedusani che regalano tende da campeggio, con tanto di sacco a pelo”. Un fotografo parla di “visione distorta delle cose” e di “impermeabilità ai sentimenti”. C’è la vita di una bambina, affidata dai genitori al cugino per sottrarla alla violenza cieca degli integralisti Al Shabaab in Somalia, soffocata tra le onde del mare, sommersa come tutte le speranze che solo il cuore di una madre e di un padre sanno avere. L’hanno accompagnata con il pensiero tra i passaggi via terra e sulla “carretta del mare”, che poco lontano dalla riva si è ribaltata. A raccontare, in questo caso, è un ragazzo del Darfur che l’ha vista morire.
C’è il racconto di una donna incinta che parla alla sua bambina: “Ho scelto la fuga, bambina mia, perché la Somalia non è mai stato un Paese per donne al di là della guerra civile”. La donna è confortata dal pensiero che la sua bimba nella pancia non vede il degrado di persone che, nelle lunghe ore del viaggio, fanno bisogni sullo stesso angoletto di legno. Non può capire i sussulti improvvisi: non appena si sente in lontananza il rumore di elicotteri chi ha il timone in mano lo abbandona perché “le forze dell’ordine italiane considerano scafisti quelli che guidano. Non vede “uomini presi a bastonate nella stiva appena tirano fuori la testa per respirare”.
Un volontario non dimentica il pianto dei “bambini lanciati dal barcone dai finanzieri che li staccavano dalle braccia del padre o della madre” per salvarli. Un medico grida: “Quando ho visto cinquemila tunisini buttati per terra all’addiaccio ho pensato di essere altrove: non poteva essere la mia Italia”. Un altro descrive “centinaia di persone in cerca di un riparo dal freddo: sembrano sacchi della spazzatura”. Un poliziotto racconta la dignità e il rispetto di ragazzi che vengono da una rivoluzione, giovani, forti, tanti. Potrebbero schiacciarci come fanno i piccoli piedi di un bambino dispettoso con un formicaio. Eppure sono pazienti.”
Il mare è il Mediterraneo accogliente delle gite e delle crociere turistiche, ma anche il albahr elabiad elmutawasser, mare “bianco e medio” visto dall’Africa. E dopo il mare c’è l’incognita: un uomo, interpellato di soppiatto nel centro di accoglienza dove la stampa non può entrare, dice: “Provo un terrore che non ho mai provato durante il viaggio in mare”. C’è chi riesce solo a esprimersi con “una stretta di mano e il thanks detto con voce flebile”.
Fausta Speranza