In una giornata piovosa, lo scorso
23 maggio, una grande manifestazione
pacifica di 60 mila
persone ha invaso il centro di
Lanciano, una cittadina abruzzese
che conta soltanto 35 mila
abitanti, per protestare contro l’ennesima
trivellazione dell’Adriatico, a
pochi chilometri dalla costa. Ombrina
mare è il nome di un giacimento
petrolifero davanti al comune di San
Vito, al largo della costa fra Ortona e
Vasto, che dovrebbe essere sfruttato
dalla compagnia petrolifera Medoil
con la costruzione di una nuova piattaforma,
dotata di una nave a supporto
delle estrazioni, più un oleodotto
e un gasdotto sottomarini, a soli 6
chilometri dalla costa. Sdoganata dal
decreto Sblocca Italia, approvato la
scorsa primavera dal Governo Renzi,
insieme al recupero di Rospo mare
ed Elsa 2, altri due progetti di trivellazione
al largo delle spiagge abruzzesi.
Senza contare che dal 2001,
almeno sulla carta, si troverebbe in
quest’aerea anche il Parco nazionale
della Costa Teatina, pensato proprio
per salvaguardare le bellezze del territorio,
sotto costante minaccia di
stravolgimento. Tutto grazie appunto
al decreto di Renzi, che da queste
parti chiamano piuttosto «Sblocca
trivelle». Non a caso il presidente di
Legambiente l’ha definito «la misura
antiambientale più completa e organica
che sia mai stata fatta nella storia
della Repubblica», perché è da quel
testo che riparte la petrolizzazione
di casa nostra, all’inseguimento di un
oro nero che nei nostri mari non è mai
stato una vera risorsa e ora lo è meno
che mai.
È una storia che a affonda le radici
negli Anni ’50 del secolo scorso, con
le ricerche del neonato Eni diretto
da Enrico Mattei al largo di Ravenna
e alle foci del Po, dopo la scoperta di
giacimenti di gas metano in Pianura
Padana. L’entusiasmo porta a intensificare licenze e relative trivellazioni,
nell’illusione di portare il Paese all’indipendenza
energetica. Con risultati
che si riveleranno molto al di sotto
delle aspettative reali o millantate allo
scopo di apparire più forti di fronte
ai giganti internazionali del settore,
le famose «Sette sorelle». Perché
qui sotto «non c’è petrolio ma bitume:
per utilizzarlo bisogna applicare
tecniche aggressive di lavorazione,
come l’acidificazione, che devastano
l’ecosistema marino», spiega Luciano
Sasso, uno dei fondatori del locale
Gas, Gruppo di acquisto solidale. «In
particolare Ombrina sarà totalmente
automatizzata perché per un essere
umano sarebbe troppo pesante esporsi
ai gas tossici utilizzati per l’estrazione». Le uniche a guadagnarci sono le
imprese: «La maggioranza dei pozzi è
gestita da aziende medio-piccole, che
hanno interesse a sfruttare giacimenti
anche poco produttivi per far “muovere”
il titolo in borsa. Prima ancora
del petrolio hanno prodotto utili finanziari», spiega Augusto De Sanctis,
attivista del Forum dell’acqua.
E aggiunge: «Le royalties che queste
aziende pagano allo Stato per lo sfruttamento
dei giacimenti sono bassissime,
fra il 7 e il 10%, senza contare che
esiste una franchigia grazie alla quale
sotto un certo livello di produzione
non pagano nulla, limite che si guardano
bene dal superare».
Gli enti locali però ora hanno le
mani legate: il decreto firmato Pd demanda
a una sola commissione ministeriale,
la Via (Valutazione impatto
ambientale), la decisione se approvare
nuovi impianti. I poteri di controllo
della Regione sono così ridotti a zero,
con il risultato che le multinazionali
del petrolio vanno dritte allo scopo, o
meglio alla trivella. Passando sopra la
testa di istituzioni locali, associazioni
ambientaliste, cittadini; sulla testa di
quei 60 mila, con 482 adesioni di organizzazioni
ed enti, molti arrivati da
tutta Italia per sostenere l’indignazione
popolare, che non accetta questo
scollamento fra la volontà delle comunità
locali e le decisioni del Governo.
E passando sulla testa anche della
Chiesa locale, che qui da anni si è
schierata compatta a fianco del popolo
contro la devastazione del territorio:
la Ceam, la Conferenza episcopale
abruzzese e molisana, guidata dal vescovo
di Pescara-Penne, monsignor
Tommaso Valentinetti, insieme all’associazionismo
ecclesiale, tra cui l’Azione
cattolica, e la diocesi locale non
hanno avuto dubbi a sfilare sotto i cartelli
“No Ombrina”: «Ci siamo mobilitati
con uno spirito di laicità, come
cittadini, senza farne una bandiera»,
sottolinea don Carmine Miccoli, responsabile
della Pastorale sociale
dell’arcidiocesi di Lanciano-Ortona.
Il movimento nasce nel 2007
come risposta al progetto Centro oli
di Ortona, un imponente impianto di
raffinazione del greggio voluto dall’Eni
e costruito su terreni agricoli delle
colline ortonesi. Diversi proprietari
dei terreni, perlopiù coltivati a vigna
su bellissime colline digradanti verso
il mare, si sono opposti all’esproprio,
e le associazioni locali li hanno appoggiati:
«Quando vedi la bellezza del
territorio in cui vivi, è difficile sentirsi
dire che non è più tuo, soltanto per un
interesse speculativo e finanziario»,
dice Luciano Sasso, e racconta che la
risposta popolare ha preso il via dalla
cocciutaggine di un anziano contadino.
«Si era rifiutato di vendere il
suo terreno per costruire il Centro.
Facevano pressione e allora quando
venivamo a sapere il giorno dei
sopralluoghi per l’esproprio, ci facevamo
trovare in tanti al suo fianco: chi
portava il pane, chi il salame, il nostro
vino non mancava certo e lo offrivamo
anche a loro. Organizzavamo un picnic
e in questo modo presidiavamo la
zona». Pratiche di resistenza che hanno
contaminato interi paesi, perché
«una cosa è certa: la lotta di uno è la
lotta di tutti», dice don Carmine. «E
noi partiamo dalle emergenze della
nostra regione per mettere in discussione
tutto il nostro modo di vivere e
contrastare un’economia e una politica
che hanno perso il senso del bene
comune».
L’Eni si è poi tirata indietro ma il
progetto Centro oli esiste ancora. In
quell’occasione sono nate molte associazioni
contro l’inquinamento che
hanno iniziato a fare rete così da far
sentire la propria voce sui rischi per
la salute: nella zona infatti si registra
un’incidenza di tumori e leucemie tre
volte superiore alla media regionale.
Lo stesso accade in Val di Sangro, nella
zona meridionale della provincia di
Chieti, per la presenza di un massiccio
agglomerato industriale, o vicino
alla discarica di Bussi (Pescara), dove
la Montedison scaricava i suoi scarti,
tanto che ora la chiamano la «terra dei
fuochi dell’Abruzzo». Lo conferma
proprio Luciano Sasso, che lavorava
alla Fondazione Mario Negri Sud, un
centro di ricerche che faceva analisi
ambientali, chiuso l’anno scorso. Oggi
restano soltanto i dati ufficiali dell’Arta,
l’Agenzia regionale per la tutela
dell’ambiente. Per loro, niente da segnalare.
Esempi di progetti disarmanti,
d’altronde, da queste parti si inanellano
uno all’altro: come l’oleodotto
che la Snam, la Società nazionale metanodotti,
vorrebbe far passare nella
regione di Sulmona, una zona altamente
sismica, a soli cinque anni dal
terremoto che ha devastato l’Aquila.
O il progetto Forest a Bomba (Chieti),
che aveva previsto lo sfruttamento del
giacimento di gas naturale, a poche
centinaia di metri dalla diga sul fiume
Sangro: in caso di incidente le conseguenze
sarebbero state devastanti.
Progetto fortemente osteggiato dalla
popolazione locale e infine bloccato
da una sentenza del Consiglio di Stato
nel maggio scorso.
«Il profitto è irrazionale», commenta
con un sorriso don Carmine.
«O meglio, ubbidisce alle ragioni del
capitale e non è umano. Il petrolio in
Abruzzo è simbolo di come certe politiche
stiano cercando di stravolgere
il legame fra vita e territorio. Guardiamo
per esempio Rospo mare, davanti a
Vasto: è vecchia, inquina, non produce,
non porta lavoro. È l’emblema della
petrolizzazione in Italia». A quanto
pare anche la ricaduta sul territorio in
termini di occupazione è nulla: i nuovi
impianti, qualora non siano completamente
automatizzati, richiederanno
soltanto tecnici specializzati. «L’indotto
petrolifero», specifica don Miccoli,
«impiega in tutto circa duecento
persone e non aumenta da anni».
Ma ora nelle persone è nata una
nuova coscienza. «Solo dieci anni fa
l’opposizione era individuale e frammentata,
mentre ora siamo tutti uniti:
studenti, collettivi, centri sociali,
e molto spesso le diocesi e i canali
ecclesiali in generale fanno da raccordo
o permettono la conoscenza e
la diffusione delle iniziative di lotta»,
racconta Eliana, 23 anni, impegnata
in Azione cattolica e nella rete Nuovi
stili di vita, nata proprio per ragionare
su un nuovo modello etico di sviluppo,
in particolare sul tema del cibo, e
che ora coinvolge 90 diocesi in tutta
Italia. Un percorso ecclesiale che si
traduce nell’uscire dalle sacrestie per
andare verso la gente, condividendone
le priorità e le sofferenze. A volte
anche aprendo letteralmente le porte
delle chiese alle riunioni dei movimenti, come fa don Silvio Piccoli nella
parrocchia del Sacro Cuore di Gesù a
Termoli, diventata il centro di ritrovo
dei movimenti “No triv” e “No Ombrina”
della zona.
Un impegno che sta cambiando
profondamente la Chiesa. «C’era una
forte disaffezione alla politica ma ora
vediamo che sta rinascendo una sensibilità
democratica che parte dalla
base. Come Chiesa stiamo giocando un
ruolo importante nel sostenere questo
processo», conferma don Miccoli.
Di più: «L’aver ascoltato i movimenti
popolari senza considerarli più nemici
ha portato a una vera e propria rivitalizzazione
della Chiesa», confessa Antonio
De Lellis, di Termoli, consigliere
nazionale di Pax Christi e di Attac Italia,
un movimento di autoeducazione
popolare orientata all’azione e alla costruzione
di un altro mondo possibile,
una delle più grandi reti internazionali
di opposizione e alternativa al neoliberismo
costruita in questi anni dal movimento
altermondialista.
La diocesi di Termoli ha infatti
condotto una battaglia cruciale per
l’acqua pubblica insieme ai movimenti
sociali: ha partecipato alla promozione
del referendum popolare
del 2007 ed è stata, nel 2005, l’unica
realtà ecclesiale a far parte del Forum
italiano per l’acqua pubblica, in prima
linea quando era scomodo farlo.
Anche Termoli fa parte della
rete Nuovi stili di vita e De Lellis sulle
trivellazioni non ha dubbi: «Il decreto
Sblocca Italia ha svenduto il territorio
», dice. «Mentre ovunque si parla
di attenzione ai cambiamenti climatici
e nuovi modelli di produzione, l’Italia
sceglie la petrolizzazione, anche
se è dimostrato che inquina». Dall’acqua
potabile a quella del mare non c’è
soluzione di continuità: la battaglia è
una sola, ne va della salvezza del territorio.
«Ci informiamo, facciamo rete,
condividiamo le esperienze fra regioni
diverse», racconta De Lellis, «quella
è la nostra forza. Perché ci siamo
resi conto che l’attacco è totale e non
si possono condurre battaglie singole
». Non esiste più il proprio orticello.
O per dirla con le parole di Luciano
Sasso: se le competenze per decidere
su un territorio non sono più regionali
ma nazionali, anche la lotta si estende
a tutta l’Italia.
Grande sostegno e conforto è arrivato
in questo senso dalla recente
enciclica Laudato si’, che va proprio
nella direzione della costruzione di un
ordine sociale basato sulla giustizia e
sulla pace, a partire dalla salvaguardia
del creato. «È un testo che nasce
dall’incontro con i Sem terra di João
Pedro Stedile e con le comunità di
base, l’impianto teologico risale a Leonardo
Bo] (uno dei principali teologi
della liberazione, ndr): non è un caso
che venga da un Papa sudamericano»,
commenta don Carmine. «Siamo di
fronte a una critica piena al capitalismo
e a un’economia che non rispetta
la vita. Questa enciclica parla a tutti,
non soltanto ai cattolici: ho visto amici
atei con le lacrime agli occhi perché
hanno ritrovato nelle parole del Papa
il senso di una battaglia comune, di un
riscatto che parte dai poveri e dagli
oppressi».
E se la Chiesa si è riconciliata con i «cristiani allontanati», come li definisce De Lellis, anche i movimenti
hanno imparato a fidarsi dei credenti: «Fino a qualche anno fa Attac non avrebbe mai chiesto a un cattolico di entrare a far parte del consiglio nazionale», dice. Un legame che si stringe e porta frutti, probabilmente l’unica speranza di fare davvero politica dal basso: «Nel 2001 a Genova l’unione fra i movimenti sociali e la Chiesa è stata repressa nel sangue perché ritenuta troppo pericolosa», commenta De Lellis. «Quel fiume carsico è riemerso nel 2005 con la lotta per l’acqua pubblica e oggi si sta fortificando sempre di più». Un legame che si rinsalda da Nord a Sud della Penisola: non a caso, dietro le scritte “No Ombrina” e “No triv” alle manifestazioni compaiono anche i cartelli “No Tav”, a indicare che la lotta è una sola e proprio le diocesi possono aiutare a fare da raccordo fra pratiche di resistenza, per non sprecare risorse e perdersi in un attivismo pastorale sterile, permettendo di saldare il rapporto fra mondo ecclesiale e mondo civile. È la strategia della lumaca, come la chiama don Carmine. La rivoluzione dal basso, che non te ne accorgi ma si muove, procede lenta ma inesorabile e prima o poi cambia tutto.