Con un “motu proprio” papa Benedetto XVI ha istituito la Pontificia Accademia di Latinità, con sede nella Città del Vaticano, “per la promozione e la valorizzazione della lingua e della cultura latina” (come si legge nel primo articolo dello statuto).
Suo presidente è stato nominato Ivano Dionigi, rettore dell’Università di Bologna; segretario, Roberto Spataro, docente di latino presso la Pontificia Università Salesiana di Roma (vedi intervista).
L’Accademia – formalmente collegata con il Pontificio Consiglio della Cultura, dal quale dipende – risponde a un’esigenza sempre più sentita nella Chiesa, quella di non disperdere troppo facilmente il ricco patrimonio teologico e culturale che nella sua storia bimillenaria si è espresso in latino.
Il problema è stato segnalato dal cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura: molti sacerdoti di oggi non conoscono più il latino. Anzi – ha rincarato la dose nei giorni scorsi il porporato – all’ultimo sinodo anche molti vescovi mostravano poca familiarità con questa lingua, che pure, negli anni del seminario, avrebbero dovuto studiare.
Non si tratta, ovviamente, di fare marcia indietro rispetto all’apertura della liturgia alle diverse lingue nazionali decisa dal Vaticano II, ma di non buttare via, come dicono gli inglesi, “il bambino insieme con l’acqua calda”.
Parlare in latino
Un altro scopo dell’Accademia – recita lo statuto –
è quello di “promuovere nei diversi ambiti l’uso del latino, sia come lingua scritta, sia parlata”. Cioè provare a rivitalizzare una lingua, come il latino, che in genere si definisce morta. E questa è una bella intuizione, anche di tipo didattico, se pensiamo a come l’idioma di Cicerone spesso viene insegnato (male) nelle nostre scuole.
Chi insegna questa materia sa che gli studenti sono sempre meno motivati nei confronti della cultura classica. E la didattica del latino è ancora segnata da una marcata grammaticalizzazione, che ne rende lo studio arido e noioso. Un approccio che sembra pensato apposta per respingere.
Nell’insegnamento delle lingue moderne è invalso da molti anni il cosiddetto “metodo comunicativo” (o “metodo natura”), che consiste nel muovere da concrete situazioni quotidiane per ricavarne le regole grammaticali, ma in un secondo momento. Introdurre il metodo comunicativo (o “metodo-natura”) anche nell’insegnamento del latino avrebbe senz’altro l’effetto di vivacizzare il suo apprendimento, rendendolo più appetibile alle nuove generazioni.
Il boom mondiale della lingua di Cicerone
La nuova istituzione vaticana va, infine, nella direzione di una risposta a una richiesta sempre più diffusa nel mondo.
Dove si capisce che il latino è importante, che il suo studio conferisce profondità alla preparazione culturale, aiuta a sviluppare le competenze logiche, argomentative, lessicali.
Sempre più negli ultimi anni, dagli Stati Uniti ai Paesi dell’Europa del Nord, dalla Cina all’Australia, è emerso un forte interesse per il latino.
In Finlandia, ad esempio, viene pubblicato in latino un quindicinale per ragazzi e la radio trasmette ogni giorno un’edizione del notiziario sempre in latino.
Proprio per rispondere a tale domanda globale,
la Pontificia Accademia di Latinità si propone di curare pubblicazioni, incontri di studio, convegni e concorsi internazionali, per educare i giovani, anche attraverso i moderni strumenti multimediali, alla conoscenza del latino.
Con quel respiro universale che contraddistingue la Chiesa cattolica, forse come nessun’altra realtà.
Roberto Carnero
Don Roberto Spataro, salesiano, insegna Letteratura cristiana antica greca presso la Facoltà di Lettere cristiane e classiche dell’Università Pontificia Salesiana.
È stato nominato segretario dell’Accademia Pontificia “Latinitatis”.
Ogni settimana scrive in latino di argomenti di attualità per i lettori del quotidiano “Avvenire”.
- Professor Spataro, da dove nasce l’idea, da parte del Santo Padre, di istituire una Pontificia Accademia di Latinità? E con quali obiettivi?
“Anzitutto, promuovere la conoscenza della lingua latina all’interno della Chiesa, soprattutto tra i sacerdoti, perché siano in grado di accedere alle fonti della teologia, della liturgia, del diritto, dell’agiografia, in una sola parola a quel ricchissimo patrimonio di fede e di scienza che è stato espresso in latino. In secondo luogo, il Papa auspica il recupero dell’humanitas, quell’armonioso concerto di valori etici e spirituali elaborato nei secoli, dal mondo antico fino all’epoca umanistica, frutto della ragione e della fede in dialogo tra loro, che storicamente è stato forgiato e comunicato in latino”.
- Come possiamo spiegare che la promozione del recupero del latino nella vita ecclesiale non è in contrasto con il rinnovamento liturgico voluto dal Concilio Vaticano II?
“La riforma liturgica non ha voluto abolire il latino: lo afferma la costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium. Pensiamo alla nobiltà del canto gregoriano che rende la liturgia carica di bellezza nell’elevare l’anima a Dio. La lettera Redemptionis Sacramentum auspica che nelle liturgie internazionali fedeli e sacerdoti possano usare per le parti ordinarie della Messa una lingua comune, il latino”.
- Parlando più in generale del latino oggi, in quali Paesi del mondo lo studio della lingua di Cicerone è più diffuso?
“In Cina è attivissima un’organizzazione interuniversitaria, Latinitas sinica. Segnali interessanti vengono dagli Stati Uniti. In Germania sono numerosi i giovani che scelgono lo studio del latino”.
- Che cosa c’è di insostituibile nello studio del latino, rispetto a quello di una lingua moderna?
“Il latino, non essendo soggetto ai mutamenti di una lingua moderna, può esprimere il pensiero in quegli ambiti della comunicazione dove non si ammettono ambiguità, per esempio la teologia dogmatica. Il latino è una lingua sobria che generalmente usa un numero minore di parole rispetto alle lingue moderne e così semplifica i processi interpretativi. È una lingua sovranazionale che non veicola la cultura nazionale di un particolare idioma. In tal senso, è una lingua più democratica. Infine, direi che il latino è una lingua bella: come non ammirare il periodare di Seneca che ci invita a meditare con le sue frasi brevi ed incalzanti o lo scavo psicologico di Agostino operato dalle figure retoriche? E che cosa dire della poesia latina, un canto che in versi metricamente sonori narra i miti che racchiudono i significati dell’esistenza umana?”.
- E in Italia secondo lei lo studio del latino è sufficientemente promosso?
“L’Italia è, per ragioni geografiche e storiche, la patria del latino. Ancora oggi, eccellenti studiosi, pregevoli istituzioni, pubblicazioni di elevato livello corrispondono a questa vocazione dell’Italia. Il liceo classico italiano ha ancora un impianto umanistico di tutto rispetto. Auspicherei, però, una maggiore diffusione del cosiddetto ‘metodo-natura’ nelle scuole italiane, che, se praticato con serietà, dà ottimi risultati: gli studenti apprendono il latino in modo da leggere con gusto, senza l’affanno del vocabolario, gli autori latini per coglierne il messaggio in lingua originale, senza ricorrere alle traduzioni altrui. In questo senso, l’esperienza dell’Accademia Vivarium Novum a Roma è esemplare”.
- Ultima domanda: lei scrive ogni settimana in latino per i lettori di “Avvenire”.
Qual è lo scopo della sua rubrica?
“Il latino è una lingua in cui si può scrivere per comunicare delle riflessioni sulla vita. Infatti, la letteratura neolatina ha prodotto capolavori fino al secolo scorso, basti pensare a Pascoli. Anche oggi non mancano coloro che scrivono e parlano in latino, anche alla radio. I lettori hanno manifestato benevolo apprezzamento per l’iniziativa”.
Roberto Carnero