Attrice di fama internazionale, con un percorso professionale che vanta la collaborazione con autori e registi del calibro di Giorgio Strehler, Franca Valeri, Vittorio Caprioli, Luca Ronconi e Pierpaolo Pasolini, Laura Marinoni è stata chiamata per il 57º ciclo di rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa, per il terzo anno consecutivo. Per la regia di Federico Tiezzi, interpreterà Medea, in scena fino al 24 giugno, spettacolo del quale ci ha parlato in questa intervista.
Quanto crede che sia ancora necessario raccontare le ‘eroine greche’ oggi? Cosa può dirci ancora il controverso personaggio di Medea?
I grandi eroi e i grandi testi classici non fanno altro che proporci i grandi temi universali dell’uomo: sono di fondamentale importanza e hanno a che fare con il senso del teatro. Io sono un’appassionata di teatro antico perché ho avuto, nella mia carriera di attrice, tantissimi incontri con il teatro classico e con le grandi protagoniste del passato. La tragedia di Medea, così com’è stata affrontata da Euripide, è qualcosa che riguarda profondamente e senza paura il mondo femminile, il tema della maternità, del tradimento, del senso dell’amore. Euripide prende una storia già esistente, così come ne succedono ancora oggi: sceglie una donna barbara, quindi una reietta, una persona che non ha alcun diritto e le dona la parola. Ci troviamo davanti a una donna che è una maga, in quanto alchimista: è un essere potentissimo, è un femminile assoluto, anche una specie di dea perché nipote del sole. È una donna che arriva al punto di uccidere i suoi figli. Mi dicono che Medea, fin dall’inizio, conquista completamente l’empatia del pubblico. Il pubblico legge la storia dalla parte di chi è tradito, umiliato, che non ha più niente da perdere: la sua è una storia d’amore, costellata da follie e avventure, che si conclude tragicamente col suo abbandono da parte di Giasone e la condanna a morte dei suoi figli. Non siamo davanti a un caso di cronaca nera che può far parte della nostra quotidianità ma che comunque risulta tremendo, tragico e contiene una specie di “suicidio”: uccidere un figlio è qualcosa di impensabile, a meno che non si impazzisca completamente. La follia di Medea parte dal rifiuto di rinunciare all’amore totale, alle promesse, ai giuramenti ed è anche ciò che la rende un personaggio chiaroscurale: il paradosso sta proprio nel fatto che sia la figlia del Sole, come se lei, in quanto tale, contenesse sia la luce più luminosa che l’ombra più profonda. Questa contrapposizione si proietta anche all’esterno della sua vicenda personale: lei viene dalla Colchide, un luogo barbaro e primitivo dove vengono predilette ancora le leggi sacre, ma si confronta con la città, la polis, il luogo razionale per eccellenza dove vigono regole giuridiche e che è un po' specchio del mondo maschile che esclude tutta la parte dell’inconscio femminile. Euripide mette proprio in scena queste contrapposizioni e induce il pubblico a riflettere su tutto quello che significa essere diversi e, allo stesso tempo, amarsi come contrari che si attraggono ma non si capiscono. La storia di Medea rappresenta un tema quanto mai attuale, perché lei potrebbe essere una migrante di oggi che non ha più niente, costretta a partire su un barcone o a piedi per raggiungere posti sconosciuti, abbandonando luoghi dove prima era una regina. Euripide dà quindi voce a chi non ha più niente e che però non accetta di autoannientarsi. Medea deve decidere se essere madre o eroina. Non può essere tutte e due le cose. Per essere eroina, per affermare la sua verità e quindi diventare il grande personaggio negativo che conosciamo, non può che scegliere la seconda strada. Madre lo è già, ma i figli le vengono sottratti e condannati a morte. Si rifiuta di consegnarli all’oltraggio dei nemici. Come può la sua condizione non raccontare la storia di molte donne migranti? L’assonanza mi sembra indiscutibile.
Ha già interpretato Medea? Sognava di interpretarla?
Sicuramente, perché Medea è un punto d’arrivo. Biograficamente andrebbe interpretata da un’attrice più giovane, ma mi rendo conto che ci vuole tanta dignità, nel corpo, nella mente e nel cuore, per affrontare un percorso di questo tipo. Non perché il percorso debba essere relativo a qualcosa che si è vissuto veramente, ma è necessario aver vissuto dolori, abbandoni, lutti, così da poter sentire intimamente quello che ha provato questa donna. Un altro tema presente in questa tragedia è proprio quello del rapporto tra Eros e Thanatos, le due divinità che ogni uomo è destinato a incontrare: la morte è inevitabile, così come anche l’amore. Ognuno è stato prima o poi travolto da Afrodite, da quella forza che non puoi controllare. Sappiamo che l’amore muove il mondo, muove anche la capacità di generare i figli, quindi è un impulso divino, ma contiene in sé anche il germe della distruzione. Io capisco questa donna, capisco cosa vuol dire l’aspirazione a un amore assoluto e come da questo sia facile arrivare alla distruzione. Noi continuamente come esseri umani siamo sempre in balia di pulsioni primordiali che siamo chiamati a controllare ma che talvolta ci travolgono. Questa primitività, questo essere una donna selvaggia è un aspetto molto affascinante perché il mondo contemporaneo ha perso quasi completamente il legame con questa ancestralità cosi autentica. A livello del percorso sulla scena, del flusso della citazione di Medea, Euripide la fa arrivare a quel gesto, ma dopo mille dubbi. Non vediamo una donna granitica che prende una decisione senza remore, come Clitemnestra, che presenta degli aspetti maschili molto forti. Lei si sostituisce ad Agamennone e procede senza tentennamenti, invece Medea è continuamente spaccata. Il monologo finale coi figli è esemplificativo: mentre lo stavo provando con questi due bambini - che non avevano mai fatto una prova, soprattutto con una temperatura di recitazione così elevata, avevamo fatto sempre solo delle prove tecniche - improvvisamente sono entrata nel personaggio e loro mi guardavano con occhi spalancati. Piangevo e poi sono dovuta scappare in camerino a piangere davvero nel camerino. Euripide ti porta li, a un punto di non ritorno, a un dolore atavico e a una compassione per tutte le persone che si trovano nella vita in situazione estreme e di cui noi non ci rendiamo conto. Medea, alle donne di Corinto, dice “Per voi è facile: voi abitate qui, avete una vita comoda, avete i vostri cari con voi. Io me ne devo andare via, non ho nessuno, non ho una famiglia dove trovare rifugio”. Questo non avere nessuno e non essere più nessuno è una condizione che dimentichiamo continuamente. Non è più un mondo, il nostro, in cui c’è spazio per la filosofia, la riflessione, l’ascolto. Questi grandi autori invece ci prendono per mano e ci mettono davanti alla nostra coscienza.
Medea e i suoi figli
Intepretarlo in un Teatro come quello di Siracusa, che non solo è un simbolo dell’antichità ma è anche crocevia di culture - perché la Sicilia è terra d’arrivo e terra di partenza - regali emozioni molto forti.
Questi teatri, come il Teatro greco di Siracusa, sono dei luoghi fuori dal tempo e dal mondo perché hai il cielo sulla testa e parli a cinquemila persone ma è come se parlassi a ognuno di loro. È un luogo molto intimo, è un luogo sacro, un luogo che è stato creato perché gli uomini si esprimano, si ascoltino. È il luogo della città, della politica, è la nascita della necessità dell’uomo di riflettere e di partecipare, di condividere, in questo assoluto bianco delle pietre, terra e cielo ci sono persone che arrivano per ascoltare e persone che si ascoltano e che raccontano una storia, che è la cosa più bella e il motivo per cui faccio teatro. È quello che mi ha folgorato da ragazzina e andavo a teatro per le prime volte, vedevo gli spettacoli di Strehler: non sapevo cosa fosse questa magia ma sapevo che era quello che volevo fare. Era quello che mi interessava, questa dimensione altra, che ci porta più vicini alla vita reale.
Abbiamo parlato molto di teatro classico, ma ha fatto anche teatro ‘contemporaneo’. L’approccio sarà sicuramente diverso. Quale preferisce?
Io in realtà amo il teatro contemporaneo quanto il teatro classico. Dipende dai testi, ma non sono assolutamente legata a un solo genere, anzi, mi piace molto cambiare stile, cambiare pelle. Trovo che non si possa vivere solo di tragedia, ma che sia molto importante l’ironia, il distacco, lo sguardo verso tutte le parti di noi. Proprio perché ho avuto in tutti questi anni l’occasione di interpretare ruoli drammatici, appena ho dei progetti miei cerco di indagare una parte diversa di me, senza uno sguardo ironico non si riesce a far niente. Parlo di ironia nel senso più letterale del termine: prendere la distanza, la giusta distanza per vedere le cose, perché sennò si viene travolti. Quando l’attore non ha il controllo di se stesso, non comunica nemmeno al pubblico: se si piange troppo addosso, non arriva l’emozione che deve arrivare. Bisogna mettere Stanislavski ma bisogna mettere anche Diderot: noi come interpreti siamo chiamati ad essere equidistanti tra quello che proviamo, quello che sentiamo e quello che deve essere il risultato. Ci deve essere sempre uno sguardo di te che ti vedi interpretare, altrimenti saremmo tutti casi psichiatrici. Non c’è qualcosa che a me non interessi, mi interessa tutto: mi interessa anche rilassarmi, divertirmi recitando. Dico sempre ai miei allievi che “bisogna divertirsi sempre". È un grande gioco. Gli spettacoli cambiano sera per sera, cambiano con l’umore degli attori, con le cose che succedono nella vita, con il rapporto col pubblico. Bisogna entrare nel flusso e rilassarsi in questa grande impresa, perché poi, ritornando al teatro classico è un teatro completamente atletico, fisico. Il tuo corpo nello spazio deve essere mosso da sentimenti, pensieri talmente alti da farti diventare più grande, come se il corpo energetico fosse visibile, quindi qualcosa che abbiamo tutti ma che a volte spegniamo invece in teatro devi sempre tenere accesa questa luce interna che abbiamo tutti.