Contrordine. Il seminario su Dostoevskij all'università Bicocca di Milano si farà, sempreché Paolo Nori che doveva tenerlo non decida di rinunciarvi, cosa che sembra intenzionato a fare. La buccia di banana sulla quale si è scivolati, magari nella perfetta buonafede di rimuovere dal mondo ogni pretesto che possa dare altro fuoco alle polveri già incendiate sulla scena internazionale, è stata raccolta. Lo scivolone c’è stato, la caduta rovinosa è stata evitata in extremis, complici un bel po’ di proteste.
Rientrato (forse) l’episodio contingente, resta una riflessione destinata a durare, se non altro perché il suo innesco si ripete. Dal biblico “le colpe dei padri non ricadano sui figli” siamo passati in questa epoca storica votata a un eterno presente alla pretesa antistorica di far ricadere sui trisavoli le colpe dei pronipoti. Si può discutere se sia giusto chiedere un passo indietro al direttore d’orchestra che oggi in piena guerra coltiva un’amicizia personale con il presidente russo che ha deciso l’invasione dell’Ucraina. Si può discutere se sia corretto o meno escludere atleti e squadre russe, in quanto rappresentativi di una bandiera, dalle competizioni sportive in violazione della carta olimpica, come si sta facendo. Si può pensarla in un modo o in un altro, non c’è una risposta univoca, ma tutto in qualche modo rientra nella pressione e nelle sanzioni che si mettono in atto nell’intento di far finire la guerra che sta devastando l’Ucraina seminando morte. Chi si schiera, chi non si schiera, chi prende le distanze lo fa nel presente, qui e ora, reagendo a una situazione presente. Si può discutere se l’essere russi sia oggi un peccato originale indipendentemente dalle proprie idee o dal coraggio di esporle pubblicamente, ma il tutto si consuma nel presente, sullo scacchiere internazionale di oggi: chi prende posizione, quale che sia, ha un margine di scelta. La questione rientra nel dibattito sul ruolo degli intellettuali e delle persone pubbliche.
Tutto cambia se si scomoda Dostoevskij, facendo cadere su di lui, morto 71 anni prima che Vladimir Putin nascesse, una sorta di peccato originale retroattivo. Su questo non si dovrebbe discutere per la semplice ragione che alla base di questo c’è una distorsione concettuale: la pretesa impossibile di giudicare la storia, i suoi personaggi, i suoi atti e i suoi fatti, con il metro morale e civile del presente, sortendo l’effetto paradossale di destoricizzarla affogandola in un presente senza tempo. Fino al paradosso di “ghigliottinare” simbolicamente e retroattivamente tutti i pezzi del nostro passato che, per qualche ragione, non corrispondono ai canoni del qui e ora: canoni che i personaggi della storia alla sbarra, ovviamente, non potevano conoscere. Un po’ perché sono morti da quel dì e un po’ perché la loro epoca non li aveva ancora maturati.
Possiamo mandare al macero Cimabue (1240-1302) per non aver rispettato dipingendo la prospettiva brunelleschiana (1425)? Possiamo processare un suddito di Carlo Magno per non essersi battuto per la separazione dei poteri che Montesquieu avrebbe teorizzato quasi mille anni dopo? Possiamo condannare l’avvocato Cicerone per non essersi battuto per liberare tutti gli schiavi presenti in Roma antica? Sarebbe lo stesso che mettere in discussione uno dei più sacrosanti principi della democrazia tanto faticosamente conquistata e ancora così faticosamente in pericolo: quello per cui non si può condannare qualcuno per aver violato una legge che quando ha agito non esisteva.
Il percorso della storia è accidentato, fatto di conquiste, di passi indietro, di un’infinità di errori. Conoscerla, ammoniva Primo Levi, tra quelli che ne hanno subita una delle più atroci manifestazioni, è il primo passo per non essere condannati a riviverne il peggio. Cancellarla, come la cosiddetta "Cancel culture" da qualche tempo prova a fare nell’illusione di mandare sotto il tappeto tutto quello che storicamente non ci piace o non ci corrisponde più, è solo un modo di condannarsi a non capirla, riducendo la realtà a un manicheo bianco e nero in cui si perdono complessità e sfumature, che poi è la premessa di tutti i conflitti, come gli insulti sui social sempre più polarizzati nel nostro piccolo ci insegnano.
Cancellare Dostoevskij per la sola colpa di essere nato due secoli fa in un posto che questa settimana per gli eventi recenti, 140 anni dopo la sua morte, avvertiamo come il lato sbagliato della storia, indipendentemente da quello che ha scritto, detto, pensato, è un passo ancora oltre: è rinnegare la ricchezza che la storia ci ha regalato, trasmesso e conservato. È dare l’idea che ci sia stato trasmesso invano.
Il fatto che una pensata simile, per quanto fugace, sia sorta in una università, dove la complessità si dovrebbe insegnare, in un Paese che fa delle tracce della sua ricchissima, e come sempre talvolta contraddittoria, storia il proprio passaporto nel mondo, è il più tortuoso controsenso che si possa immaginare.
A proposito di studiare la storia, chissà se qualcuno ricorda che in Italia le trasmissioni di Radio Londra con cui la Bbc mandava messaggi alla resistenza italiana erano introdotte dalle prime note della Quinta Sinfonia di Beethoven, un compositore tedesco, cui nessuno s’è sognato di addossare le colpe di Adolf Hitler.