Alle spalle hanno una porta che si chiude (ma non per sempre), solitudini morali o materiali, esperienze troppo forti per i loro pochi anni. E pezzi: di vissuto difficile, di relazioni fragili, di vita ferita. Davanti hanno una stanza (non uno stanzone) da dividere con qualcuno, educatori motivati a un lavoro impegnativo, un pezzo di strada da fare insieme per provare a ricostruire fiducia in sé e nel mondo. E paura. Sono i ragazzi che entrano e vivono, per un po’, in comunità. Sono, stando ai numeri che il Garante per l’infanzia e l’adolescenza Vincenzo Spadafora si è battuto per raccogliere in modo finalmente sistematico, lo 0,2% dei minorenni che vivono in Italia. Ci arrivano per azione del Pronto intervento quando sbarcano, affidati a un barcone, accompagnati da nessuno. Oppure per decisione di un giudice, che li affida in prova ai servizi sociali, per una seconda chance dopo un reato che hanno commesso. O ancora perché, dopo aver sperimentato altre strade di assistenza, un Tribunale per minorenni valuta che chi dovrebbe occuparsi di loro al momento non riesce a farlo, perché non può, perché non sa. E’ una decisione difficile da prendere, da raccontare e pure da capire. Spesso chi apprende da un giornale la storia di una vicenda di allontanamento - e quelli che finiscono sui giornali sono spesso i casi limite non la regola - pensa alla propria famiglia, alla “normalità” delle tensioni quotidiane, ai propri bambini. S’immedesima, con il proprio vissuto, in una realtà che però non assomiglia alla sua.
Si fa presto a dire famiglia.
«In tutte le famiglie capita di avere
momenti di conflittualità», spiega Giuliana Tondina, giudice di lungo
corso al Tribunale per minorenni di Genova, «in tutte le famiglie può
capitare che volino in un attimo d’esasperazione parole forti. Ma non in
tutte le famiglie accade che un bimbo di due anni veda il papà prendere
la mamma per il colletto e sbattere la testa violentemente contro uno
stipite. Non in tutte le famiglie capita, che in casi drammatici, come
questi, non ci sia un nucleo affettivo: una zia, dei nonni che possano
farsi carico della situazione. Sono questi i “nostri” casi». Quando
attorno c’è un disagio tanto profondo da non poter essere sanato
nell’immediato, chi decide valuta che la comunità sia, temporaneamente,
il male minore: ma è un passaggio, nel frattempo si prova risistemare i
cocci in famiglia, magari agendo con un affido temporaneo a una
famiglia di sostegno disponibile ad accogliere, sperando che basti a
preparare un rientro a casa. L’adozione segue solo nei casi più gravi,
quando l’assenza, totale e irrimediabile, di risorse familiari adeguate
mette i bambini in condizioni di abbandono morale e materiale. Su questo
fronte una nuova legge, la 173 del 19 ottobre 2015, interviene a
salvaguardia della continuità affettiva con la famiglia affidataria,
qualunque cosa accada dopo, sia che si torni a casa propria, sia che
l’affido si traduca in adozione. Ma tutto questo viene dopo, lungo il
percorso.
Prima che sia tardi.
L’allontamento, invece, è
l’intervento che si fa per salvare, prima che sia troppo tardi. «E’ una
decisione», continua la giudice Tondina, «che si prende con lo spirito
con cui un chirurgo decide di operare: non ha interesse a farlo, nemmeno
prova piacere nel farlo, semplicemente valuta che in una situazione di
pericolo per la crescita del bambino intervenire sia non il migliore dei
mondi possibili, ma il male minore, l’unica alternativa. La fase più
difficile viene prima, al momento di valutare situazioni molto
complesse. A volte i bambini ci stupiscono per la lucidità, per la
capacità che hanno di capire e mettere in parole l’esperienza vissuta».
Accade che siano addirittura loro a chiedere aiuto: «Mi è capitato»,
racconta Simone Feder, educatore alla Casa del Giovane di Pavia, «un
ragazzo di 14 anni che ha chiesto spontaneamente di entrare in comunità:
sempre più spesso, in qualunque modo avvenga, accogliere un ragazzo
significa prendere in carico l’enorme fragilità della sua famiglia:
capita di avere a che fare con genitori che mettono la propria
conflittualità al centro di tutto, che neanche vedono i bisogni di un
figlio. Capita, con i ragazzi più grandi, che siano i genitori a
rivolgersi al Tribunale per minorenni, perché non riescono più a
gestirne l’educazione, la ribellione, talvolta la dipendenza». Sono
bambini e ragazzi con radici e rami nelle complicazioni peggiori della
vita come Malony, protagonista di A testa alta, tosto film diretto da
Emmanuelle Bercot, con una splendida Catherine Deneuve, nei panni della
giudice minorile, in uscita 19 novembre.
Franca Assente, assistente
sociale, collaboratrice del Cam di Milano, ne ha viste tante di storie
così. «Bambini che vanno a scuola vestiti - ogni giorno, non una
mattina per spirito di ribellione - con gli abiti della stagione
sbagliata, perché nessuno se ne occupa, che a scuola non vanno affatto o
quando vanno si addormentano in classe. Approfondisci un po’ e scopri
che in casa i più adulti sono loro, perché magari hanno una mamma
tossicodipendente, che pure si sforza di uscirne, ma nel frattempo non
ha la forza di farsi carico di nessun altro. Bambine che a cinque anni,
parlano di argomenti relativi alla sfera sessuale che non possono avere
inventato, con una “competenza” innaturale alla loro età. Il nostro
compito non è indagare, altri sono deputati a farlo, ma cogliere segnali
di disagio. Fin dove possiamo siamo i primi a cercare di andare
incontro alle famiglie, anche quando si allontana un bambino si fa il
possibile perché sia un percorso condiviso, perché le persone coinvolte
partecipino al progetto», che nell’esito più favorevole dovrebbe
riportare il bambino a casa sua.
Vincenzo Spadafora è il primo a
sostenere che la famiglia possibilmente d’origine è il luogo dove ogni
bambino dovrebbe stare, ma ammette che spesso «La realtà è più dura ed è
un dovere fare in modo che gli stessi diritti che i più fortunati hanno
siano assicurati anche ai ragazzi che in famiglia non possono stare».
Fare Squadra
Nell'inserimento in comunità sono coinvolti molti soggetti, riflette il Garante: «Genitori, servizi socio-sanitari, Tribunale e Procura per minorenni, Regione e tutte le realtà, pubbliche e private che insieme contribuiscono al percorso formativo di un bambino, di un ragazzo. Devono essere supportati e messi nella condizione di lavorare al meglio, con risorse, economiche e non solo, e strategie chiare. Così come deve essere sostenuta la famiglia, in tutte le problematicità. Più tutti gli "attori" in scena lavorano in armonia, tenendo l'attenzione sul bambino o la bambina, meglio potranno fare il suo bene. E' importante che facciano sistema, che si parlino, che si coordinino».
Per questo l'Ufficio del Garante ha voluto riordinare i dati: «Dobbiamo proteggere i ragazzi accolti, che sono 19.000 non 50.000. Ora dovremo concentrarci sulle risorse, lavorare per prevenire con tutti i mezzi l'allontanamento».
Ricostruire la fiducia
Nessuno si nasconde che si lavora su materia
viva e che rimettere insieme i pezzi non è facile, meno che mai chi come
Simone Feder vive a contatto con i ragazzi ogni giorno: «Un bambino, un
ragazzo che arriva in una comunità ha alle spalle un vissuto in cui
spesso non ci sono adulti cui far solido riferimento, non si fida di
nessuno, spesso cova rabbia, trovarsi per decisione d’altri in un luogo
sconosciuto aumenta la diffidenza. Gestire questo momento difficile è
il nostro lavoro: quando il ragazzo capisce che non sei lì per imporgli
una griglia di regole, ma per ascoltarlo, che lo aiuti mentre impara un
lavoro manuale, che gli stai dietro con la scuola, che ti interessa
quello che ha da dirti, che ascolti, ascolti, ascolti proprio lui che
nessuno ha mai ascoltato, piano piano ti si appoggia, si apre. Di lì
con cautela si comincia a ricostruire. Poi, certo, non chiudi la porta a
sera: ti porti a casa, sulla pelle, la comunità». Inconvenienti di un
lavoro che non è soltanto un mestiere.