Contribuisci a mantenere questo sito gratuito

Riusciamo a fornire informazione gratuita grazie alla pubblicità erogata dai nostri partner.
Accettando i consensi richiesti permetti ad i nostri partner di creare un'esperienza personalizzata ed offrirti un miglior servizio.
Avrai comunque la possibilità di revocare il consenso in qualunque momento.

Selezionando 'Accetta tutto', vedrai più spesso annunci su argomenti che ti interessano.
Selezionando 'Accetta solo cookie necessari', vedrai annunci generici non necessariamente attinenti ai tuoi interessi.

logo san paolo
mercoledì 18 settembre 2024
 
dossier
 

Le famiglie di chi (per un po') non ha famiglia

19/11/2015  Ragazzi immigrati da soli, ragazzi che hanno commesso un reato, ragazzi senza famiglia o che ne hanno una che per un po' non è in condizioni di occuparsi di loro. Il Garante per l'Infanzia ha messo ordine nei numeri dei minorenni affidati alle comunità. Noi abbiamo provato a capire che cosa c'è dietro le cifre: chi sono questi ragazzi, chi si occupa di loro, come vanno a finire lì.

Alle spalle hanno una porta che si chiude (ma non per sempre), solitudini morali o materiali, esperienze troppo forti per i loro pochi anni. E pezzi: di vissuto difficile, di relazioni fragili, di vita ferita. Davanti hanno una stanza (non uno stanzone) da dividere con qualcuno, educatori motivati a un lavoro impegnativo, un pezzo di strada da fare insieme per provare a ricostruire fiducia in sé e nel mondo. E paura.  Sono i ragazzi che entrano e vivono, per un po’, in comunità.  Sono, stando ai numeri che il Garante per l’infanzia e l’adolescenza Vincenzo Spadafora si è battuto per raccogliere in modo finalmente sistematico, lo 0,2% dei minorenni che vivono in Italia. Ci arrivano per azione del Pronto intervento quando sbarcano, affidati a un barcone, accompagnati da nessuno. Oppure per decisione di un giudice, che li affida in prova ai servizi sociali, per una seconda chance dopo un reato che hanno commesso. O ancora perché, dopo aver sperimentato altre strade di assistenza, un Tribunale per minorenni valuta che chi dovrebbe occuparsi di loro al momento non riesce a farlo, perché non può, perché non sa. E’ una decisione difficile da prendere, da raccontare e pure da capire. Spesso chi apprende da un giornale la storia di una vicenda di allontanamento - e quelli che finiscono sui giornali sono spesso i casi limite non la regola -   pensa alla propria famiglia, alla “normalità” delle tensioni quotidiane, ai propri bambini. S’immedesima, con il proprio vissuto, in una realtà che però non assomiglia alla sua.  

Si fa presto a dire famiglia.

 «In tutte le famiglie capita di avere momenti di conflittualità», spiega Giuliana Tondina, giudice di lungo corso al Tribunale per minorenni di Genova, «in tutte le famiglie può capitare che volino in un attimo d’esasperazione parole forti. Ma non in tutte le famiglie accade che un bimbo di due anni veda il papà prendere la mamma per il colletto e sbattere la testa violentemente contro uno stipite. Non in tutte le famiglie capita, che in casi drammatici, come questi, non ci sia un nucleo affettivo: una zia, dei nonni che possano farsi carico della situazione. Sono questi i “nostri” casi». Quando attorno c’è un disagio tanto profondo da non poter essere sanato nell’immediato,  chi decide valuta che la comunità sia, temporaneamente, il male minore: ma è un passaggio, nel frattempo si prova risistemare i cocci in famiglia, magari agendo con un affido temporaneo a una famiglia di sostegno disponibile ad accogliere, sperando che basti a preparare un rientro a casa. L’adozione segue solo nei casi più gravi, quando l’assenza, totale e irrimediabile, di risorse familiari adeguate mette i bambini in condizioni di abbandono morale e materiale. Su questo fronte una nuova legge, la 173 del 19 ottobre 2015, interviene a salvaguardia della continuità affettiva con la famiglia affidataria, qualunque cosa accada dopo, sia che si torni a casa propria, sia che l’affido si traduca in adozione. Ma tutto questo viene dopo, lungo il percorso.  

Prima che sia tardi.

  

L’allontamento, invece,  è l’intervento che si fa per salvare, prima che sia troppo tardi. «E’ una decisione», continua la giudice Tondina, «che si prende con lo spirito con cui un chirurgo decide di operare: non ha interesse a farlo, nemmeno prova piacere nel farlo, semplicemente valuta che in una situazione di pericolo per la crescita del bambino intervenire sia non il migliore dei mondi possibili, ma il male minore, l’unica alternativa. La fase più difficile viene prima, al momento di valutare situazioni molto complesse. A volte i bambini ci stupiscono per la lucidità, per la capacità che hanno di capire e mettere in parole l’esperienza vissuta».

Accade che siano addirittura loro a chiedere aiuto: «Mi è capitato», racconta Simone Feder, educatore alla Casa del Giovane di Pavia, «un ragazzo di 14 anni che ha chiesto spontaneamente di entrare in comunità: sempre più spesso, in qualunque modo avvenga, accogliere un ragazzo significa prendere in carico l’enorme fragilità della sua famiglia: capita di avere a che fare con genitori che mettono la propria conflittualità al centro di tutto, che neanche vedono i bisogni di un figlio. Capita, con i ragazzi più grandi, che siano i genitori a rivolgersi al Tribunale per minorenni, perché non riescono più a gestirne l’educazione, la ribellione, talvolta la dipendenza». Sono bambini e ragazzi con radici e rami nelle complicazioni peggiori della vita come Malony, protagonista di A testa alta, tosto film diretto da Emmanuelle Bercot, con una splendida Catherine Deneuve, nei panni della giudice minorile, in uscita 19 novembre.

Franca Assente, assistente sociale, collaboratrice del Cam di Milano, ne ha viste tante di storie così.  «Bambini che vanno a scuola vestiti - ogni giorno, non una mattina per spirito di ribellione - con gli abiti della stagione sbagliata, perché nessuno se ne occupa, che a scuola non vanno affatto o quando vanno si addormentano in classe. Approfondisci un po’ e scopri che in casa i più adulti sono loro, perché magari hanno una mamma tossicodipendente, che pure si sforza di uscirne, ma nel frattempo non ha la forza di farsi carico di nessun altro. Bambine che a cinque anni, parlano di argomenti relativi alla sfera sessuale che non possono avere inventato, con una “competenza” innaturale alla loro età. Il nostro compito non è indagare, altri sono deputati a farlo, ma cogliere segnali di disagio. Fin dove possiamo siamo i primi a cercare di andare incontro alle famiglie, anche quando si allontana un bambino si fa il possibile perché sia un percorso condiviso, perché le persone coinvolte partecipino al progetto», che nell’esito più favorevole dovrebbe riportare il bambino a casa sua.

Vincenzo Spadafora è il primo a sostenere che la famiglia possibilmente d’origine è il luogo dove ogni bambino dovrebbe stare, ma ammette che spesso «La realtà è più dura ed è un dovere fare in modo che gli stessi diritti che i più fortunati hanno siano assicurati anche ai ragazzi che in famiglia non possono stare».  

Fare Squadra

  

Nell'inserimento in comunità sono coinvolti molti soggetti, riflette il Garante: «Genitori, servizi socio-sanitari, Tribunale e Procura per minorenni, Regione e tutte le realtà, pubbliche e private che insieme contribuiscono al percorso formativo di un bambino, di un ragazzo. Devono essere supportati e messi nella condizione di lavorare al meglio, con risorse, economiche e non solo, e strategie chiare. Così come deve essere sostenuta la famiglia, in tutte le problematicità. Più tutti gli "attori" in scena lavorano in armonia, tenendo l'attenzione sul bambino o la bambina, meglio potranno fare il suo bene. E' importante che facciano sistema, che si parlino, che si coordinino».
Per questo l'Ufficio del Garante ha voluto riordinare i dati: «Dobbiamo proteggere i ragazzi accolti, che sono 19.000 non 50.000. Ora dovremo concentrarci sulle risorse, lavorare per prevenire con tutti i mezzi l'allontanamento».

Ricostruire la fiducia

Nessuno si nasconde che si lavora su materia viva e che rimettere insieme i pezzi non è facile, meno che mai chi come Simone Feder vive a contatto con i ragazzi ogni giorno: «Un bambino, un ragazzo che arriva in una comunità ha alle spalle un vissuto in cui spesso non ci sono adulti cui far solido riferimento,  non si fida di nessuno, spesso cova rabbia, trovarsi per decisione d’altri  in un luogo sconosciuto aumenta la diffidenza. Gestire questo momento difficile è il nostro lavoro: quando il ragazzo capisce che non sei lì per imporgli una griglia di regole, ma per ascoltarlo, che lo aiuti mentre impara un lavoro manuale, che gli stai dietro con la scuola, che ti interessa quello che ha da dirti, che ascolti, ascolti, ascolti proprio lui che nessuno ha mai ascoltato, piano piano ti si appoggia,  si apre. Di lì con cautela si comincia a ricostruire. Poi, certo, non chiudi la porta a sera: ti porti a casa, sulla pelle, la comunità». Inconvenienti di un lavoro che non è soltanto un mestiere.

Multimedia
Iqbal, il bambino-sindacalista che non aveva paura
Correlati
Iqbal, il bambino-sindacalista che non aveva paura
Correlati
Catherine Deneuve, giudice di cuore
Correlati
 
 
Pubblicità
Edicola San Paolo