La Croce dei martiri albanesi nella chiesa delle Stimmatine a Scutari. Foto di Stefano Pasta.
Tirana, Albania
Nostro servizio
«La
paura, naturalmente, era nata prima del coraggio». Così don Simon
Jubani ha raccontato il clima che si respirava il 4 novembre 1990,
quando in Albania, dove si era raggiunto un livello di repressione
ignoto anche agli altri regimi comunisti, tornò la libertà
religiosa. Dal 1945, anno della presa del potere di Enver Hoxha, la
dittatura provava a mettere al bando Dio dalla società albanese.
Qualunque nome avesse: a Durazzo
finirono nella stessa prigione e nella stessa tomba il muftì Mustafà
Varoshi e l’arcivescovo Prendushi. Il culmine della persecuzione
contro cattolici, ortodossi, musulmani sunniti e i sufi bektashi
arrivò nel 1967 con il divieto di ogni manifestazione di culto e con
la definizione, nella Costituzione del 1976 rimasta in vigore fino al
1992, di “primo Stato ateo al mondo”.
Eppure,
mentre il regime provava a imprigionare anche il cielo, la fede in
Albania veniva salvata da anziani preti torturati e piegati dai
lavori forzati nei lager (erano 31 nel 1991 secondo Amnesty
International), piccole suore che a rischio della vita battezzavano
clandestinamente e anziane nonne che insegnavano le preghiere ai
nipoti prima di addormentarsi, nascoste sotto le coperte per non
farsi sentire. Davanti agli ex luoghi religiosi trasformati in teatri
e centri sportivi, capitava poi di notare qualche cero lasciato nel
buio della notte. Sfidavano il terrore: a scuola i bambini venivano
istigati a denunciare i genitori; a Pasqua bastava avere l’alito
dal puzzo di aglio, che gli albanesi usano per festeggiare quel
giorno, per rischiare l’arresto.
Anche
grazie alla fede di questi resistenti, il 4 novembre 2015 gli
albanesi si ritrovano, guidati dal presidente della Conferenza
episcopale monsignor Angelo Massafra e dal cardinale emerito di
Palermo Salvatore De Giorgi, al cimitero cattolico di Scutari, nel
nord. Qui, venticinque anni fa, don Jubani celebrò la prima Messa
pubblica in Albania. Proprio
nel 1990, don Simon aveva subito l’ennesimo arresto. «Mi avevano
rotto tutti i denti ed ero così prostrato che non sentivo per niente
i calci e pugni», ha ricordato nelle sue memorie. Gli si avvicinò
un ufficiale che gli mise sul naso un medaglione della Madonna:
«Sputaci sopra e ti libero subito!», gli disse, e al suo rifiuto
seguì una nuova razione di torture.
Ma
a Berlino era caduto il muro e anche in Albania iniziavano a soffiare
i primi venti di libertà. «Però
– ha raccontato il sacerdote – la popolazione, nutrita con la
psicosi del terrore, non voleva crederci. Iniziai ad accompagnare i
morti
al cimitero, davanti a me c’era sempre un bambino con la croce in
mano».
Alle nove del mattino del 4 novembre, un uomo di nome Mark
bussò alla porta di don Simon: «Mi disse che alcune persone,
radunate nel cimitero per pulire le tombe dei cari, volevano sentire
la Messa e lo avevano mandato a chiamarmi».
Quando
il prete arrivò al cimitero, chi si era radunato continuò a
sistemare le lapidi, senza neppure salutarlo, perché non si dicesse
che lo avevano invitato. Nel posto dove una volta c’era l’altare,
restava solo un mucchio di immondizia: «Mark ritornò dalla sua casa
con un piccolo tavolo in mano: era il primo altare che si innalzava
in Albania dopo la grande distruzione». Dietro al muro del cimitero,
dove si buttavano i rifiuti della città, nei decenni precedenti
erano stati fucilati numerosi martiri.
Don
Simon iniziò a celebrare l’Eucarestia, mentre alcuni fedeli si
avvicinarono prendendo coraggio. Spiega l’attuale vescovo di
Scutari, monsignor Massafra: «Proprio perché non era sicuro che la
celebrazione sarebbe finita bene, erano arrivati altri sacerdoti
pronti a sostituirlo qualora lo avessero ucciso». Alla fine della
Messa, i presenti erano 400-500, la polizia non intervenne e fu il
segnale che la libertà religiosa era tornata. L’11 novembre seguì
un’altra celebrazione pubblica, a cui parteciparono migliaia e
migliaia di persone, mentre il 16 novembre i musulmani aprirono e si
riappropriarono della moschea di Scutari detta “del Piombo”.
Durante
la commemorazione per il venticinquesimo anniversario, si
ricorderanno in particolare i 40 martiri albanesi per cui è in corso
la beatificazione. «Speriamo – dice monsignor Massafra – che
l’anno del Giubileo della Misericordia coincida con la conclusione
del processo».
Tra di loro vi è anche un gesuita italiano, padre
Giovanni Fausti, ucciso nel 1946, e una donna, l’aspirante
stimmatina Maria Tuci. Nel 1950, dopo un anno di prigionia, disse a
un’amica che andò a visitarla: “Ringrazio
Dio perché muoio libera”. Si era avverata la minaccia del suo
persecutore: «Ti
ridurrò in uno stato tale che neppure i tuoi familiari ti
potranno riconoscere».
Tutti
erano stati torturati. Ha raccontato un testimone
di quello che toccò al francescano Serafin Koda di Lezha: «Lo
immersero in un bidone d’acqua fino al collo, gli affondarono le
unghie nella gola sino a spezzargli la trachea. Padre Serafin si
rivolse alla Madonna con questa preghiera: “O Vergine Santa, porta
presto a compimento il tuo lavoro!”». Don
Anton Muzaj di Scutari veniva invece costretto a rimanere in piedi
con il naso attaccato al muro, legati mani e piedi, per interi giorni
e notti, mentre la sete acuiva le sofferenze. Chiedeva ai due
prigionieri che lavavano il pavimento del corridoio della prigione di
non asciugare quell’acqua, per poterla bere. Bastonato, morì di
tubercolosi dopo che gli buttarono addosso secchi gelati e lo
esposero alle correnti dei mesi invernali. Su
6 vescovi e 156 preti di prima del regime, ben 65 morirono per
esecuzione o tortura e 64 erano deceduti dopo essere stati
incarcerati o nei campi. Alla
fine della dittatura sopravvivevano una trentina di sacerdoti: tutti
avevano conosciuto la detenzione.