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venerdì 18 aprile 2025
 
Il Teologo
 

Le immagini sacre nelle chiese e il divieto del primo comandamento

27/06/2023 

Perché le nostre chiese sono piene di immagini sacre, in contraddizione con il primo dei dieci comandamenti (cfr. esodo 20,3-5)? 

ALESSANDRO GRIMOLDI

Alla base di quel divieto, di produrre immagini e di rivolgere un culto verso di esse, sta la prima parte del comandamento: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Esodo 20,3; Deuteronomio 5,7), dunque si tratta dell’unicità del Dio d’Israele e del conseguente rigetto di ogni idolatria. Ogni rappresentazione di Dio fatta dalla mano dell’uomo va contro la sua assoluta trascendenza: Egli è altro rispetto a tutto ciò che esiste e non può essere raffigurato da nulla che sia creato; qualsiasi immagine, anche la più sublime, sarebbe non soltanto limitata e limitante, ma perfino errata. Inoltre nell’antichità un’immagine (scolpita o dipinta) della divinità era ritenuta un modo per avere accesso ad essa e alla sua potenza, un poterne disporre per i propri fini, farne quindi un idolo a cui prostrarsi per averne dei benefici (cfr. la critica agli idoli nel Salmo 115,4-8). 

Tuttavia l’Antico Testamento ammette alcune volte che si possano fare immagini come mediazioni di salvezza, come il serpente di rame innalzato da Mosè (cfr. Numeri 21,4-9), oppure l’arca dell’alleanza con i cherubini raffigurati sul coperchio (cfr. Esodo 25,10-22). Inoltre, su un altro piano della riflessione, nel primo capitolo della Genesi si dice che l’essere umano uomo-donna è stato fatto “a immagine e somiglianza” di Dio, perciò se sulla terra si deve pensare a un’immagine di Dio, la sua approssimazione maggiore è costituita dalla relazione umana amorosa e feconda; in quel disegno originario è implicata anche la partecipazione umana, la sua “vocazione” a essere appunto sulla terra “immagine di Dio”.

Per noi cristiani, la rivelazione del Dio d’Israele si compie con l’incarnazione, cioè la Parola di Dio fatta carne in Gesù di Nazaret: così egli diviene l’immagine, l’icona perfetta di Dio. Quando nel quarto Vangelo uno dei discepoli chiede a Gesù di mostrare loro il Padre celeste, egli risponde: «Chi vede me, vede il Padre» (Giovanni 14,9). Il Verbo eterno è divenuto visibile e tangibile: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita… noi lo annunciamo anche a voi” (1Giovanni 1,1-3). Qui risiede il fondamento della legittimità dell’icona: «Il Dio inaccessibile, inimmaginabile, si rende contemplabile nel suo mistero attraverso un volto umano, il volto di Gesù di Nazaret» (Olivier Clément). 

Proprio basandosi sul mistero dell’incarnazione, il concilio di Nicea nel 787 ha rifiutato l’iconoclastia, cioè la dottrina di chi nell’VIII e IX secolo avversarono il culto religioso e l’uso delle immagini sacre, e ha giustificato il culto delle icone: quelle di Cristo, ma anche della Madre di Dio, degli angeli e dei santi. Perciò il culto cristiano delle immagini sacre – da non confondere con l’adorazione che è riservata solo a Dio – non è contrario al primo comandamento che condanna l’idolatria; onorando l’immagine, si onora chi vi è rappresentato (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2129–2132). Ovviamente occorre da una parte formare i fedeli a distinguere tra venerazione e adorazione, e dall’altra fare in modo che le immagini sacre (a volte effettivamente troppo numerose nelle chiese) siano non una distrazione, ma un aiuto per favorire l’adorazione dovuta unicamente a Dio.

 

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