I senza fissa dimora, i minori stranieri arrivati in Italia dopo viaggi estremi, gli anziani soli, i detenuti, i poveri, i malati, i rom. E' a tutte queste persone che, nel tempo di Natale, la Chiesa cerca di essere vicina con un affetto particolare. L'arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, le chiama «il mio presepe vivente». Nulla a che vedere con i quadretti bucolici, fatti di zampognari e agnellini in braccio ai pastori, che la nostra splendida tradizione artistica colloca nelle case e nelle chiese. Questo è un presepe metaforico, fatto dagli estromessi, dagli scartati. E' un presepe acciaccato, ferito, provato dalla fatica e dalla solitudine. Ma certamente è reale, tanto più autentico in queste ore dolorose, in cui l'Europa si scopre, ancora una volta, esposta all'orrore della violenza.
A partire dal 7 dicembre, l'Arcivescovo di Torino ha inaugurato un fitto calendario di incontri, per essere vicino con una presenza concreta alle situazioni di maggiore fragilità. Iniziative del genere non sono certo limitate al periodo natalizio. Semplicemente si intensificano ora che la festa, per paradosso, rischia di rendere più stridente il contrasto fra la città del benessere e quella del disagio. L'itinerario delle visite ha toccato, tra l'altro, una comunità dove vivono 24 giovani migranti, giunti in Italia da pochi mesi. Hanno tra i 15 e i 17 anni. Arrivano perlopiù da Paesi dell'Africa sub-sahariana (Gambia, Mali, Senegal, Nigeria, Guinea Conakry) ma c'è anche chi è partito dal Bangladesh. Alle spalle hanno storie di viaggi disumani. Tutti sono passati attraverso la Libia: lì qualcuno è stato incarcerato (semplicemente perché straniero), altri hanno svolto lavori massacranti, non pagati e soggetti a continue minacce. In Italia sono arrivati a bordo dei barconi ormai tragicamente noti e c'è chi ha visto morire in mare amici o familiari. Ora, grazie a un progetto di collaborazione fra Diocesi, cooperative sociali e volontariato, abitano in una casa protetta, sulla collina torinese, stanno studiando l'italiano e a breve saranno inseriti in percorsi di formazione professionale.
Monsignor Nosiglia ha voluto incontrarli, ascoltarli, fare merenda con loro. Sono, nonostante tutto, ragazzi normali: amano il calcio, molti sognano di diventare dei professionisti del pallone (alle pareti, disegni che raffigurano i loro campioni: su tutti, il centrocampista Paul Pogba, ma ci sono anche italiani come Bonucci e Verratti). Lo sport può essere un primo terreno d'integrazione, tanto che l'arcivescovo ha suggerito di organizzare una partita di calcio, coinvolgendo anche gli ospiti di un'altra comunità. Tra i ragazzi vi sono alcuni cristiani, che si stanno inserendo nella locale comunità parrocchiale: qualcuno ha chiesto al Pastore una speciale benedizione.
Questa non è che una delle tappe. Nei giorni scorsi monsignor Nosiglia ha visitato il museo Egizio di Torino insieme a un gruppo di persone senza fissa dimora. «La cultura» ha sottolineato il presule in quell'occasione «è come il pane e rappresenta un elemento insostituibile per vivere dignitosamente. E' un diritto di cui tutti dovrebbero poter usufruire. Esso fa parte del riconoscimento dovuto a ogni cittadino, anche non abbiente, per sostenere la sua promozione integrale, donare dignità e vigore alle sue esigenze interiori e renderlo sempre più libero e responsabile». Tra gli altri appuntamenti dell'arcivescovo, le visite a mense per persone in difficoltà, ospedali, case per anziani. Giovedì 22 dicembre la Messa il pranzo con i detenuti del carcere Lorusso e Cotugno, sabato 24 l'incontro con una comunità rom. E il giorno di Natale monsignor Nosiglia partecipa al pranzo organizzato dalla Comunità di Sant'Egidio.