Un fattore certamente non marginale che determina il “cambiamento d’epoca”, spesso evocato da papa Francesco, è costituito dal fenomeno migratorio. E proprio mentre mi accingo a scrivere queste riflessioni, mi raggiunge il testo di un’intervista ad Antonio Silvio Calò, pubblicata da La Repubblica (10 gennaio 2020, p. 23), dal titolo “Io i migranti li ho aiutati a casa mia. Che orgoglio poter dire: ce l’hanno fatta”. Abbiamo certamente bisogno di testimonianze come questa piuttosto che di discorsi buonisti. Più abbondano questi ultimi, più la gente si incattivisce, assumendo atteggiamenti ed esprimendo posizioni di chiusura, se non di vero e proprio odio razziale, determinato, come insegna opportunamente Francis Fukuyama, nel suo Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi (ed. italiana 2019 UTET), dal risentimento che a sua volta nasce dalla percezione del mancato riconoscimento da parte dell’altro, che diviene così nemico.
Il periodo natalizio ha posto quanti hanno partecipato alle celebrazioni liturgiche di fronte a racconti di migrazione e di nomadismo, che, per il tramite di rappresentazioni cinematografiche, più o meno discutibili, quali quelle di Zalone e di Ficarra e Picone, hanno raggiunto anche chi non si è recato in chiesa, ma nelle sale, col bisogno di ridere o sorridere e, speriamo, uscendo col pensare, determinato da messe in scena di un viaggio nello spazio e un viaggio nel tempo. Sta di fatto che l’immigrazione provoca una vera e propria rivoluzione antropologica e culturale, con risvolti teologici di notevole portata.
Innanzitutto si tratta dell’“uomo nomade”, efficacemente descritto da Jacques Attali nel suo ponderoso saggio del 2006, che porta questo titolo. E tale nomadismo culturale e antropologico intreccia la questione dell’identità e pone il problema della conoscenza della verità. Nell’epoca delle posizioni definite e ben circoscritte in rigidi confini protetti da frontiere inespugnabili, vigeva (e per molti è ancora determinante) il modello della logica binaria, che si svolge (al modo delle attuali macchine informatiche, ma chissà cosa ci riserverà il computer quantistico!) secondo il dinamismo vero/falso, bene/male, bello/brutto, on/off, 1/0. Così se la mia cultura è vera, le altre sono false, se la mia religione è vera, quella degli altri è sicuramente falsa. Ecco perché i robot Eve ed Adami del romanzo di Ian McEwan Macchine come me e persone come voi (Einaudi 2019) si suicidano: non sopportano una logica diversa da quella binaria.
In tale orizzonte si determina e si rappresenta quello che il compianto Remo Bodei, nel suo ultimo libro Dominio e sottomissione (il Mulino 2019) ha chiamato il vincolo, per troppo tempo ritenuto indissolubile, fra logos e polemos. Il “cambiamento d’epoca” richiederebbe, al contrario l’esercizio, certo più faticoso e spesso rischioso, di quella che il filosofo chiama una “ragione ospitale e includente”. Quanto siamo lontani dallo scioglimento di questo legame e dall’apertura che l’ospitalità esige anche dal pensiero! In una intervista, recentemente pubblicata in italiano da Jaca Book, Raimon Panikkar (che si è addottorato presso l’università in cui insegno, sotto la guida del mio illustre predecessore Vladimir Boublik), rispondendo a chi gli chiedeva conto della sua nota espressione “sono nato cristiano, mi sono scoperto hindu e ritorno buddhista, senza tuttavia smettere di essere cristiano”, diceva: “Credo sia necessario superare questa concezione, in ultima analisi dialettica della realtà e mettere da parte la concezione esclusivista, secondo cui se uno è una cosa non può esserne un’altra, quasi che la realtà si lasciasse costringere in questi dipartimenti e compartimenti che si escludono mutualmente” (Parliamo degli stessi mondi? Visione orientale e visione occidentale a confronto). E i tempi sembrano progressivamente maturare, nel momento in cui il provinciale dei gesuiti nigeriani pubblica il suo bel libro Confessioni di un animista.
Nella visione di Attali, l’esperienza del nomadismo costituisce il terreno per il sorgere del monoteismo: il nomade – secondo il pensatore francese – ha bisogno di un unico orientamento, quindi inventa il Dio unico. Ma la tesi può rovesciarsi, proprio perché il nomade rischia di smarrirsi, il Dio unico gli si rivela, dando vita alla famosa espressione di F. Rosenzweig: “La rivelazione è orientamento”, ripresa con la figura della “stella” (e il racconto dei magi è vicino e non va dimenticato) nella Fides et ratio di san Giovanni Paolo II. Così l’ebreo (arameo) errante, presente in tanti dipinti di Marc Chagall, non si smarrisce e non perisce, ma si orienta e si salva. La teologia oggi è chiamata a declinare il tema della rivelazione e della fede nel Dio unico in senso inclusivista, piuttosto che escludente. Come spesso hanno mostrato i quesiti teologici dei lettori di questa rivista, la domanda di fondo è: si diventa figli dell’unico Dio col battesimo o tutti gli uomini sono figli di Dio (come ripete il papa)? Si tratta di aspetti complementari della filiazione divina e l’insistenza sulla universalità non toglie nulla alla peculiarità della vita sacramentale cristiana, che inizia col battesimo. Tutti coloro che credono in un unico Dio pertanto possono ripetere la preghiera che Gesù ci ha insegnato e quindi sentirsi fratelli, senza eludere le differenze, ma ritenendole arricchenti l’esperienza umana, religiosa e cristiana. Il (ri)sentimento si trasformerà, o meglio, convertirà in “sentimento” di figliolanza e di ospitalità, nella quale l’identità non è dispersa, ma pienamente realizzata.