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Le notti da sballo, viste da un Pronto soccorso

24/07/2015  Il racconto di Carolina Prevaldi, Dirigente medico del pronto soccorso di San Donà di Piave (Venezia): "Arrivano ragazzini in coma,devi capire che cosa hanno preso, e nenche loro lo sanno. Salvar la vita è solo l'inizio".

Spietata è la notte. Soprattutto se la guardi dal punto di vista di chi vede arrivare urgenze al Pronto soccorso, quando l’estate e il sabato invitano a ballare, per troppi a sballare sulle rive festaiole delle vacanze. Ragazzi fuori, incoscienti fino al coma, nei casi peggiori, o agitati da miscugli di sostanze imprevedibili, portati dentro dal 118, il più delle volte lasciati al proprio destino da compagnie, con cui fino a un minuto prima condividevano il divertimento. Quando il gioco si fa duro gli altri portano via il pallone. Se anche ci fossero non sarebbero d’aiuto: nemmeno loro sanno che cosa ci sia dentro e spesso neppure chi vende la pasticca o  rifornisce anonimo in Rete lo sa.

Capita che tocchi a Carolina Prevaldi mentre li «riacciuffa per i capelli», come dicono loro quando si lavora sul filo di una vita lì lì per andare, avvisare genitori a notte fonda, perché nessuno degli amici ci ha pensato. Carolina Prevaldi è Dirigente medico al pronto Soccorso di San Donà di Piave, e Referente Audit Clinico dell’Azienda ULSS n.10 del Veneto Orientale: un pronto soccorso che serve il litorale più grande d’Europa. Ma non è che il problema abbia geografia, capita ovunque si viva la notte: «A spanne da una a 10 volte a weekend, anche altri giorni in estate o quando ci sono rave party, concerti, eventi, raduni».  

La dottoressa Prevaldi, lunga esperienza, descrive così una situazione tipo: «Ti arriva il ragazzino, in coma, ma capitano anche a grappoli di 4-5, non per forza della stessa compagnia, ma presenti alla stessa festa, con gradi diversi di gravità: il kit che rileva le sostanze note, al test del sangue e delle urine, dà risposta negativa: non vede niente. Ipotizzi un coma etilico, ma il tasso alcolemico nel sangue non è tale da giustificare il coma. A quel punto è probabile che si tratti di una sostanza sconosciuta ai test». 

E allora al lavoro del medico si sovrappone quello del detective a caccia di sostanze chimiche di nuova generazione: «Da una parte stabilizzi il paziente: monitoraggio, se necessario rianimazione. Cerchi di recuperare e mantenere le funzioni vitali, per salvargli nell’immediato la vita. Nel frattempo chiami il Cnit (Centro nazionale di informazione tossicologica) di Pavia e chiedi lumi sul da farsi, mandi i campioni di sangue e urine che hai conservato ai loro laboratori - li prendono loro con un corriere - e si cerca di scoprire il nemico sconosciuto, per mirare la terapia: le droghe sintetiche non sono veleni che si risolvono con un antidoto, tocca curare i sintomi uno a uno. Così, due anni fa su un trentacinquenne già tossicodipendente abbiamo rintracciato il secondo caso di intossicazione da metoxetamina in Europa. Il meccanismo è simile a quello del doping: l’industria che lo produce sintetizza sostanze che sfuggano ai test, chi lo contrasta cerca di individuarle ma arriva dopo».

Il più delle volte, salvata la vita - non sempre ci si riesce - comincia il lavoro: «Spesso un genitore a quel punto vorrebbe sentirsi dire che va tutto bene, che è tutto finito, non che si è avvisato un Sert. E invece putroppo, anche quando un ragazzo se la cava senza danni permanenti  (ma ne ho visti in dialisi o trapiantati di rene o di fegato), c’è da preoccuparsi. Da medico e da madre mi dico che è un problema enorme, un’emergenza sociale, e quando vedo arrivare  ragazzini e ragazzine, di 13-14 anni, in coma o quasi, alle 4 di mattina, mi chiedo che cosa non abbia funzionato con gli adulti che hanno attorno».  

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