Il caso dell'insegnante che ha pubblicato frasi contro gli immigrati e a favore del fascismo su facebook, una recente sentenza sul saluto romano e disegni di legge per proibire gadget nostalgici del fascismo portano d'attualità il tema del rapporto tra violenza verbale e discriminazione reale, tra libertà di espressione e apologia di reato. Ma le leggi e il diritto che dicono?
Ne parliamo con il prof. Giovanni Ziccardi, docente di Informatica giuridica all'Università statale di Milano, autore del libro L'odio online (Raffaello Cortina editore, 2016).
Un’insegnante (non di storia) scive su facebook frasi cariche d’odio contro gli immigrati e rilancia contenuti che inneggiano al fascismo. Scatta un’indagine disciplinare e la Procura apre un fascicolo: dove sta il confine tra l’apologia di reato e la libertà di espressione?
«Purtroppo nell’ambito delle espressioni d’odio i confini sono sempre molto labili. Variano a seconda dello Stato e, in molti casi, anche a seconda del Continente. Un esempio classico è la diversa disciplina vigente in Europa rispetto a quella degli Stati Uniti d’America. In Italia, in particolare, ci dobbiamo riferire alla legge 25 giugno 1993, n. 205 (e succesisve modifche e integrazioni), la cosiddetta “Legge Mancino” che punisce gesti, azioni e slogan aventi per scopo l'incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali, oltre all'utilizzo di simboli razzisti. Il confine è, quindi, in quanto è previsto in questa legge, anche se a volte le previsioni sono generiche e possono essere interpretate in vari modi».
Ci può fare qualche esempio?
«In particolare, la legge punisce chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi e chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Inoltre, la legge vieta ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi e punisce chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza. Sono puniti anche coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi. Circa i simboli, invece, la legge punisce chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi" come sopra definiti “ e vieta la propaganda fascista e razzista negli stadi. Da ultimo ma non ultimo, è punito chi pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. I confini tra libertà di espressione e reato sono, quindi, quelli definiti dalla normativa vigente. Gli stessi, però, possono essere a volte di difficile interpretazione».
La potenziale pervasività di un mezzo come Internet cambia la sostanza solo negli effetti, per così dire, sociali o anche nel diritto?
«Internet non è strumento che genera odio ma che ha un impatto molto forte sia sul lato sociale sia sul lato giuridico. Sul lato sociale interviene mutando completamente le modalità di comunicazione e di diffusione dell’odio, con particolare riferimento alla sua amplificazione e alla sua persistenza nel tempo. Da un punto di vista giuridico, il problema è il coordinamento di tante norme nazionali e internazionali e il raggiungere un corretto equilibrio tra “esigenze” del digitale (soprattutto nell’ottica di uno sviluppo della società) e protezione giuridica. Circa il primo punto, gli effetti sociali, è innegabile che l’odio venga amplificato: spesso chi semina odio non si rende conto del potenziale che ha Internet nel far circolare e rendere “attuale” una espressione d’odio. Non solo, via Internet l'espressione di odio diventa “persistente”, ossia presente a lungo nell’ambito digitale e quasi impossibile da rimuovere. Circa il secondo punto, il diritto prova a fronteggiare la rivoluzione digitale cercando, allo stesso, tempo, di proteggere gli utenti e di non soffocare il mercato e la tecnologia stessa (compresi i diritti di libertà degli utenti), ma non è affatto una cosa facile».
La Rete spesso veicolo di “odio verbale” ha bisogno di regole ad hoc?
«Assolutamente no, le regole ci sono già. Occorre un maggior coordinamento tra tre aspetti: la contro-parola/azione degli utenti, il diritto (e la sua reazione) e la tecnologia (comprese le azioni dei gestori delle piattaforme elettroniche). Il primo punto è strettamente connesso all’educazione, al dialogo, alla contro-parola e alla civiltà nei comportamenti. Il secondo riguarda l’uso “buono” del diritto, ossia garantire reazioni che non soffochino la libertà di manifestazione del pensiero ma che permettano di punire i casi più gravi. Il terzo aspetto riguarda un uso intelligente delle tecnologie sviluppando, ad esempio, sistemi automatizzati di gestione delle espressioni d’odio, di analisi semantica (con filtraggio o rimozione dei contenuti) o lo sviluppo di algorimi che tengano sempre sotto controllo le espressioni d’odio che circolano e che permettano di intervenire rapidamente. Un buon equilibrio tra questi tre aspetti consentirebbe una reazione molto efficace».
La Regione Emilia-Romagna la scorsa estate ha approvato una risoluzione per estendere il reato di apologia «anche alla vendita e diffusione di gadget con immagini del regime»: le norme che ci sono non bastano?
«Si tratta di una iniziativa politica che domanda una riforma del reato in questione (e del codice penale) che non si sa se avverrà. Probabilmente è stata ispirata da quanto avvento in Francia alcuni anni orsono con una vicenda che ha riguardato la vendita di cimeli nazisti su alcuni grandi siti web e portali (tra cui Yahoo!) e la richiesta di condanna degli amministratori dei siti. La legge Scelba, che risale al 1952, non comprende le ipotesi di gadget o, esplicitamente, di espressioni circolanti sui social network, ma fu pensata per punire chiunque promuova od organizzi sotto qualsiasi forma, la costituzione di un'associazione, di un movimento o di un gruppo che abbia le caratteristiche e persegua le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista, oppure chiunque pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Di qui numerose richieste (anche con disegni di legge fermi in Parlamento) per adeguare la normativa italiana ai tempi moderni, non solo con riferimento ai gadget ma anche con riferimento a gruppi estremisti e dichiarazioni circolanti sui social network».
Il saluto romano in alcune sentenze definitive è punito come reato, in altre no: come si spiegano le oscillazioni?
«Perché la giurisprudenza interpreta in maniera diversa i singoli casi. In uno, ad esempio, i giudici hanno ritenuto che il saluto romano di due manifestanti non fosse altro che uno strumento/gesto di commemorazione e non fosse invece idoneo a diffondere l’ideologia fascista, né vi fosse quella intenzione. Si trattava, insomma, di un “gesto rituale” che però in quella occasione specifica aveva, nell’intepretazione dei giudici, un significato commemorativo e non di propaganda ideologica. In un secondo caso i giudici hanno invece ritenuto il saluto fascista come reato in quanto connesso, secondo i giudici, a una vera e propria azione diffusiva dell’ideologia, vietata dalla legge. Certamente ulteriori pronunce potranno fare chiarezza nella linea interpretativa dei giudici, in attesa di chiarimenti normativi».