C’era un bambino che amava la neve e i colori. E impensieriva le psicologhe della scuola perché invece di parlare preferiva disegnare. Abitava nel paesino di Zadlog, sulle Alpi slovene, dove d’inverno il manto bianco raggiunge anche i due metri di altezza. Nella neve profonda tra la casa di famiglia e il capanno della legna, racconta ora lui stesso, «con le mie sorelle costruivo un tunnel: da qui per me è iniziato il mistero del colore, da quella massa spessa, luminosa, che filtrava i raggi del sole». Allora non aveva gli strumenti per dirlo, ma oggi, a 62 anni, Marko Rupnik sostiene che quell’esperienza gli ha «fatto capire che il colore rende testimonianza alla luce, perché senza luce non c’è più colore e anche la neve diventa nera».
Quei colori – i bianchi accesi, le mille sfumature del blu, i rossi e gli ori – che i giovani convenuti a Cracovia per la Gmg hanno potuto ammirare negli oltre mille metri quadri di mosaici che rivestono la nuova basilica dedicata a san Giovanni Paolo II. Colori e materia plasmati dal genio artistico di questo gesuita sloveno, tanto allergico al protagonismo e tanto schivo nel mostrare sé stesso che non è stato facile convincerlo a farsi fotografare per questo servizio.
Proprio grazie all’amicizia con il Papa polacco, padre Rupnik ha percorso un cammino interiore e artistico che mai avrebbe immaginato. «Ho avuto la grazia di conoscere personalmente Giovanni Paolo II e di avere con lui diversi incontri e conversazioni teologiche», racconta. «Era un uomo aperto a tutto ciò che lo Spirito muove. Per esempio ricordo che accompagnavo il grande teologo ortodosso francese Olivier Clément dal suo segretario, monsignor Dziwisz: lui e Wojtyla restavano a parlare per ore… Amava la vita, le idee astratte non lo affascinavano. Due cose gli stavano a cuore e le indicava come via della Chiesa: l’uomo in Cristo e l’amicizia, cioè la persona non da sola ma in relazione».
I mosaici per Cracovia
Un approccio relazionale che fonda la teologia trinitaria di papa Wojtyla e che Rupnik ha voluto richiamare nella grande opera di Cracovia. È il Dio che si fa ospite alla querce di Mamre, da Abramo e Sara; è Maria che mostra il Salvatore ai re magi, simboli dei popoli di ogni latitudine; è la discesa di Cristo agli inferi che prende per il polso Adamo ed Eva: sono le tre grandi scene riprodotte nell’abside del santuario, che culminano nell’arco trionfante dove c’è la riproduzione della Gerusalemme celeste. «Chi entra in chiesa guardando dal basso verso l’alto vede tutta la storia della salvezza: non entreremo nel regno se non facendo parte del corpo di Cristo, che ci raggiunge nella morte e risorge con tutta l’umanità».
Lo spirito che ha guidato il gesuita nel comporre i mosaici che rimandano alla vita e alla teologia di papa Wojtyla si rifà a un approccio antico: «Oggi nell’arte siamo abituati a presentare i santi nelle diverse situazioni della loro esistenza come una specie di cronaca che però tra mille anni forse non diranno nulla a chi li vede. Per la Chiesa antica, invece, bisognava trovare il nesso tra le opere del santo e la Sacra Scrittura».
«In questo modo il santo è un’esegesi (una spiegazione della Sacra Scrittura, ndr), la sua vita diventa luogo della manifestazione di Cristo. L’opera d’arte da un lato è totalmente personalizzata, ma dall’altro attinge a un’immagine biblica che è eterna, un simbolo in cui tanti si possono ritrovare. Bisogna superare l’individualità del santo per mettere in evidenza la sua persona come intessuta nel Corpo di Cristo, il santo nella sua trasfigurazione e dunque come luogo della comunione. Perciò nella chiesa a Cracovia abbiamo solo tre volte il volto di Wojtyla, ma ci sono decine di immagini e tutte parlano di lui come luogo della rivelazione dell’amore di Dio».
È stato proprio grazie a una richiesta di Giovanni Paolo II che padre Rupnik ha riscoperto il mosaico, la tecnica artistica che ha dato una svolta alla sua opera.
Entrato a 19 anni nella Compagnia di Gesù con il sogno di diventare missionario in Giappone, una malattia ai reni non gli permetterà di raggiungere l’estremo Oriente (anche se il tondo rosso della bandiera nipponica tornerà in tante sue opere), ma gli farà seguire la sua strada di artista. Infatti nonostante alcune resistenze iniziali da parte dei superiori, dopo che a Lubiana anche alcuni critici atei del regime comunista riconoscono il suo talento, viene mandato a studiare all’Accademia d’arte di Roma. «Era il 1977. Il mio superiore, padre Šef, mi disse: “Non so perché tu devi studiare l’arte, ma so che devi anche se non capisco, sento che un giorno Dio saprà come questa cosa sarà utile alla Chiesa”. E mi diede la sua benedizione. Poi mi seguì nel cammino di studi, come un padre».
Il successo e la crisi
Rupnik diventa un pittore affermato, le sue opere vanno in mostra in prestigiose gallerie d’arte. Ma a un certo punto decide di fermarsi: «Avevo fatto molte mostre in giro per il mondo, e ho capito che l’arte è un drago che ti può anche distruggere perché mette al centro l’individuo, solo il proprio io. Mi ricordo che era il mese di febbraio, sono andato nella basilica di San Paolo fuori le mura e in una lunghissima preghiera ho offerto al Signore la mia arte, i pennelli, i tubi, le spatole, tutto. Volevo essere liberato, tanto che tornando a casa ho coperto con il nero i quadri che stavo dipingendo e non ho toccato più niente». Resta fermo 6-7 anni, «non ho più dipinto se non nel mio cuore». Riprende nel 1994, su esplicita richiesta dell’allora Generale dei Gesuiti. Il padre Kolvenbach, infatti, lo chiama e gli dice di metter mano a una proposta che molti anni prima lo stesso Rupnik gli aveva fatto: realizzare una scuola di arte cristiana, per andare incontro alla domande di tanti artisti incontrati in Europa che avrebbero voluto fare qualcosa per la Chiesa ma si sentivano isolati, non sapevano a chi rivolgersi. Il Generale aveva considerato la cosa un’ottima idea, ma aveva invitato il giovane gesuita a desistere e a dedicarsi allo studio della teologia. «Mi chiamò e mi disse che era giunta l’ora di ritornare all’arte. C’è molta differenza quando vuoi fare tu una cosa o quando sei chiamato. L’arte non era più espressione dell’artista, ma diventava un servizio. Questo è stato il più grande cambiamento».
Come le antiche botteghe
Da quell’input di padre Kolvenbach nasce a Roma l’atelier del Centro Aletti, a due passi da Santa Maria Maggiore. Non una scuola ma «una bottega, dove si lavora insieme, con un maestro, si discute e ci si arricchisce a vicenda. È un processo, come avveniva nei tempi antichi per l’apprendista che andava in monastero per imparare la tecnica dell’affresco». Prima del mestiere, dice Rupnik, bisogna fare l’iniziazione alla vita nuova: «Quando avrai questa esperienza di vita sarà facile esprimerla. Se non ce l’hai, devi inventarla ed è un’operazione di cosmetica, non è una cosa seria. Bisogna essere abitati da qualcosa, affinché questa cosa fluisca attraverso di te. La relazione è il luogo della conoscenza, della fede e della creatività». Chi frequenta l’atelier entra a far parte della comunità del Centro Aletti, formata da quattro gesuiti e alcune sorelle teologhe o artiste, studia e vive lì quattro anni. Tra le tante domande che arrivano ogni anno c’è una selezione fortissima: al momento sono presenti una ventina di persone, laici e consacrati, provenienti da più di dieci nazioni e da diverse Chiese di tradizione apostolica (ortodossi, greco cattolici e latini).
Il passaggio dalla pittura al mosaico, spiega Rupnik, comporta il «sottomettersi alla rigorosa disciplina del disegno. Ogni linea deve essere assolutamente precisa, perché bisogna sapere dove mettere ciascuna pietruzza. Il disegno per me è stato una grande purificazione, così come la stessa pietra, che non si sottomette alla tua volontà ma vuole il dialogo. Ho capito in modo esperienziale che il male del mondo sta nella nostra volontà che vuole imporsi e autoaffermarsi, che è importante essere liberi da se stessi». Da questo percorso nascono una serie di opere importanti in diverse parti del mondo, tra cui la cripta di padre Pio nella chiesa di Renzo Piano a San Giovanni Rotondo, la chiesa intitolata a Giovanni Paolo II a Washington, il mosaico nella chiesa ortodossa della Trasfigurazione a Cluj, in Romania.
La cappella per Wojtyla
Ma sarà una richiesta di Giovanni Paolo II a fargli iniziare questo percorso di consapevolezza: nel 1996, due anni dopo che è ritornato a dipingere, Wojtyla infatti lo chiama e gli chiede di fare un mosaico per la cappella Redemptoris Mater, in Vaticano. «Gli spiegai che il mosaico è morto con il Rinascimento. Ma aggiunsi che c’era una via: partire dall’antica teologia orientale – per esempio quella di Massimo il Confessore – che sostiene che anche la materia ha in sé il codice del Verbo, perché è creata secondo il Logos. E considerando alcune avanguardie storiche del ventesimo secolo che hanno dimostrato che il materiale è un linguaggio autonomo si può proporre una via nuova del mosaico. Dunque con il mosaico dovevamo far vedere il linguaggio delle pietre, esprimere la relazione d’amore che ingloba anche la materia. Far vedere che è il Volto la convergenza di tutto il creato, di ogni materia del mondo. Ma questa sarebbe stata una rivoluzione». La risposta del Papa? «Mi diede una pacca sulla spalla e mi disse: “E faccia questa rivoluzione”».
Il lavoro delle mani
Ritorna così l’antica intuizione avuta nell’infanzia, quando si incantava davanti al lavoro delle mani dell’uomo e a quello meraviglioso della natura. Osservando i cristalli disegnati dal gelo sui vetri durante la notte, ammirando l’abilità del papà muratore che mischiava i colori o accompagnandolo nei campi dopo la gelata invernale: «Mi sono innamorato del fatto che il mondo non è morto, dentro c’è la vita e questa vita è la luce. Avevo 4-5 anni e ricordo, come se fossi oggi, mio padre che con la sua mano forte benedice solennemente il campo prima di cominciare a lavorare. Quando mi preparavo per la prima Comunione e il prete ci ha insegnato la preghiera: “Manda il tuo Spirito e trasforma la faccia della terra…”, io gli dissi di aver capito questa preghiera, perché era esattamente quello che faceva il mio papà. È una dimensione che è rimasta nel mio dna: la relazione tra le persone e l’unità dello spirito e delle mani».
IL CENTRO ALETTI
Il Centro Aletti è costituito da varie realtà: un’équipe per gli esercizi e la formazione spirituale; Lipa, la casa editrice, gestita dalle sorelle (consacrate in associazione privata di fedeli); l’atelier dell’arte; l’atelier di teologia intitolato al cardinale Tomaš Špidlik; l’atelier di architettura per edilizia liturgica ed ecclesiale. Il cuore di tutto è l’équipe di Gesuiti e sorelle, che permanentemente studia e riflette su questi temi.