La perdita del lavoro per chi lo aveva, le barriere all’ingresso per chi lo cerca. Sono questi i poli entro cui oscilla il pendolo del problema lavoro - Italia anno 2015 - secondo Serena Sorrentino, classe ‘78, napoletana, segretario generale della Cgil con delega a Mezzogiorno e politiche di coesione. “Disoccupazione e inoccupazione sono le due doti che ci lascia in eredità una riforma del mercato del lavoro infinita. Quella che va avanti da 20 anni e ha prodotto il 13% di disoccupazione e oltre il 40% di senza lavoro tra gli under 25”.
Non è colpa solo del Jobs Act, insomma.
Non solo. Il lavoro di demolizione delle garanzie dei lavoratori dura da due decenni. Si è governato il mercato dell’occupazione all’insegna del mantra della flessibilità. Quel che si raccoglie oggi è maggiore precarietà, più diseguaglianza. Dovrebbe essere ormai a tutti chiaro, invece, che il problema non sono le norme: questa è una crisi di produzione, di produttività.
Ci chiarisca meglio.
Il Paese ha rinunciato a due cose: vere politiche industriali, efficaci politiche del lavoro. Si è smesso di fare investimenti su prodotti e competenze. Si è scelta la scorciatoia di introdurre a gettito continuo riforme molto mediatiche anziché investire in modo sistematico sulla filiera lunga che lega istruzione e occupazione, puntando sulla formazione e l’aggiornamento continuo dei lavoratori. Senza l’innalzamento dei tassi di istruzione, proprio il punto che l’Ocse rimprovera all’Italia, senza l’aggiornamento della forza lavoro non si batte una crisi così difficile. Si diffonde solo insicurezza sociale. Occorre una svolta.
Ci dica una priorità.
Politiche attive del lavoro. Cioè tutti quegli strumenti non solo per sostenere il reddito di chi ha perso il posto, ma per aiutare i disoccupati a trovarne o ritrovarne uno. Sa quanto spende l’Italia per i suoi Centri per l’impiego? Milioni 493, per 8.713 addetti. La Germania stanzia 41 miliardi e di addetti ne ha 110mila. Questi sono i numeri. E con questi dati non si va da nessuna parte. Oltre che tutele passive (e doverose) a chi il lavoro lo ha perso – Naspi, Cassa Integrazione – occorre investire fortemente sul rilancio delle competenze della nostra forza lavoro. Fare orientamento, bilancio delle competenze, incrociare bene domanda e offerta. Tutte cose che costano, ma portano frutti. Magari non immediati ma durevoli.
Lei è giovane, donna, meridionale. Le donne del Sud, statistiche alla mano, pagano il prezzo più alto. Cosa si sente di dire loro all’alba di questo 1° maggio.
Che comunque non è tutto nero. E che siamo davanti a una possibile svolta che ci tocca cogliere. Nei piani dei finanziamenti 2014/ 2020, l’Europa ci permette di usare la “strategia del plurifondo”. Sarà possibile, cioè, incrociare i finanziamenti del Fondo sociale europeo (per le politiche del lavoro) con i Fondi regionali per lo sviluppo (per le politiche industriali). Grazie a questo, il Sud può uscire da una dimensione localistica che in passato ha portato a un uso spesso inefficiente dei fondi di Bruxelles. Potremmo cioè creare nuovo lavoro e formare su questa nuova domanda di lavoro la popolazione meridionale.
In quali ambiti?
Ne cito tre a mo’ di esempio: politica energetica, con tutta la partita delle energie rinnovabili; infrastrutture ovvero porti, aeroporti e trasporti regionali; agroalimentare, con investimenti che valorizzino i prodotti locali. Accompagnare tutto ciò con investimenti sulla forza lavoro può essere una leva per svoltare. Significherebbe costruire sistemi industriali che coniugano industria e occupazione. Ma c’è un terreno chiave su cui ci si gioca tutto.
Quale?
Le città. La strategia europea ruota tutta intorno ai grandi centri urbani. Ed è qui il tema delle nuove reti informatiche, della digitalizzazione delle nostre città che per il Mezzogiorno può essere un volano di nuovo lavoro. A patto che esista una vera, efficace regia nazionale.
Che lei non vede?
No. Il Governo si attarda su logiche vecchie. Il ragionamento che si fa a Palazzo Chigi suona più o meno così: per creare nuovi posti basta abbassare ancora un po’ il livello dei costi e delle garanzie. E lasciare fare al mercato. E’ la logica del Jobs Act. Ma serve solo a redistribuire la domanda di lavoro che c’è già, non a crearne di nuova. Basta guardare ai dati di marzo. I cosiddetti nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato sono al 50% semplicemente la trasformazione dei vecchi contatti a termine in nuovi contratti a tutele crescenti.
Non è detto che sia un male.
Certo ma non è nuovo lavoro. Si spalma in modo diverso quello che c’era già, in cambio di molte garanzie in meno. E’ una logica di retroguardia.
Che fa, cita? Di solito è questo Governo che dice al sindacato di giocare in retroguardia.
Come vede, succede il contrario. Siamo noi, quelli della Cgil, che chiediamo al premier più innovazione, non solo più investimenti. E più volontà, più attenzione sugli interventi di lungo periodo.