Alzi la mano chi non ha avuto una piccola reazione di scetticismo quando Abu Mazen, presidente dell'Autorità palestinese, ha mostrato la stilografica che gli è stata regalata da papa Francesco e ha detto di voler firmare con quella il trattato di pace con Israele? Eppure, alla vigilia dell'incontro (mercoledì 23 ottobre) del Pontefice con l'altro protagonista, il premier di Israele Netanyahu, non ha il sentore di una "ultima spiaggia" sperare che proprio dal Vaticano possa scaturire la scintilla giusta per innescare qualche progresso su una via, quella della pace, che da molti anni nessuno riesce a percorrere.
Il problema della pace tra Israele e i palestinesi è molto, molto più ampio della mera questione politica. Non a caso i trattati del passato non hanno raggiunto lo scopo: se uno rilegge quanto previsto da quelli di Oslo, siglati giusto vent'anni fa e suggellati dalla storica stretta di mano tra Rabin e Arafat, scopre che dal punto di vista pratico alla fin fine quasi tutto ciò che era auspicato in quelle carte si è realizzato. Gli israeliani hanno lasciato Gaza, l'Autorità palestinese è stata creata ed è governata sulla base di libere elezioni... Ma la pace non c'è e non è nemmeno alle porte.
La vera difficoltà sta nel fatto che, dopo tanto rivendicare a unghie sguainate le rispettive identità, sia Israele sia i palestinesi hanno difficoltà a definirsi, a capire bene chi e che cosa siano diventati. Di palestinesi, si sa, ce ne sono almeno due tipi: tra la Cisgiordania con capitale Ramallah, e la Striscia di Gaza con capitale Gaza City, così come tra Abu Mazen e i suoi e gli uomini di Hamas, corrono così tante (in campo economico, culturale, religioso e politico) e così profonde differenze da autorizzarci a pensare che il comune rancore contro Israele sia ormai più che altro un pretesto, una scusa per non dirsi definitivamente addio.
Non molto diversa, in fondo, la situazione di Israele, che era e resta un Paese assai più composito di quanto di solito si creda, e di quanto ai suoi dirigenti piaccia rivelare. Tra un ebreo ultraortodosso di una yeshiva di Gerusalemme e un ebreo laico di Tel Aviv corre una differenza che il comune ebraismo non basta a colmare. Tra un ebreo ashkenazita, che ha l'Europa nel Dna, e un ebreo mizrahi nato in Irak o in Iran e mediorientale nell'intimo, il dialogo può essere difficile. Anche qui, il rancore contro i palestinesi rischia di essere il solo collante.
Per arrivare alla pace, quindi, occorre che i due contendenti svolgano prima di tutto un accurato esame di coscienza che non riguarda le azioni dell'altro, ma loro stessi. Il lungo, troppo lungo conflitto, ha portato Israele e i palestinesi a somigliarsi in questo incertezza di fondo, strutturale, segno evidente (assai più dei muri, dei carri armati e degli attentati) che il potere corrosivo della guerra non risparmia nessuno. In questo, la Chiesa di papa Francesco, che da cardinale Bergoglio era riuscito a stabilire buoni rapporti sia con i musulmani sia con gli ebrei, può davvero fare molto.