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domenica 15 settembre 2024
 
 

"Le società tolgano potere ricattatorio agli ultrà"

08/10/2013  Dov'è il confine tra discriminazione, campanile e goliardia? Ne parliamo con il sociologo Mauro Valeri, responsabile dell’Osservatorio su razzismo e antirazzismo nel calcio.

Infuria il dibattito sulla «discriminazione territoriale» e sul fatto che le regole così come sono e come sono applicate espongono le società e il pubblico “sano” al ricatto dei tifosi aggressivi. Ne parliamo con il sociologo Mauro Valeri, che ha diretto l’Osservatorio nazionale sulla xenofobia dal 1992 al 1996 e che dal 2005 è responsabile dell’Osservatorio su razzismo e antirazzismo nel calcio.

Dottor Valeri, c’è una soluzione?

«Ho letto che Galliani ha chiesto l’abolizione della discriminazione territoriale e questa è una sciocchezza perché la darebbe vinta ai razzisti. È sbagliato dire che non ha riscontro nel regolamento della Uefa, perché la Uefa stabilisce alcuni criteri: la razza, il colore, la religione, ma lascia a ogni Paese la libertà di inserire altri fattori di discriminazione. L’Italia ha inserito la lingua, il sesso, la discriminazione territoriale. Se gli altri fattori sono tutti facilmente comprensibili perché fanno riferimento all’articolo 3 della Costituzione, la discriminazione territoriale ha a che fare con il campanile. E siccome già in passato si è esagerato si è scelto di inserirla nel Codice di giustizia sportiva».

Si sono recepite le regole dell’Uefa e tutto l’articolo 11 del Codice di giustizia sportiva è stato modificato in direzione repressiva: c’è chi dice che così sia troppo rigido. Che fare?
«La repressione da sola non funziona. Ci vorrebbe anche sulla discriminazione territoriale e razziale  un lavoro di educazione, anche perché la repressione viene politicamente strumentalizzata».

Una soluzione credibile quale sarebbe?
«La logica del ragionamento Uefa va in due direzioni: da un lato costringere le società a isolare le persone che hanno condotte razziste o discriminatorie, cosa che in Italia non avviene mai. Dall’altro, lavorare di più con le associazione antirazziste, usando di più i fondi per attività antirazziste nelle scuole calcio e con la collaborazione dei tifosi sani. In Italia c’è un problema in più: non abbiamo testimonial, non ci sono calciatori che mettono la faccia su questi temi. Stante che le regole sono queste, non possiamo far finta che non ci siano, ma dobbiamo trovare un equilibrio».

Si dice che sia un problema sia l’arbitrarietà, la poca chiarezza. E’ così?
«Sì, anche questo è un problema. All’estero le società e le Federazioni distribuiscono libretti con i simboli vietati, perché qui non si fa? In Inghilterra tante società hanno un codice etico per cui, al di là del codice sportivo, un patto tra tifosi e società. Se un tifoso si comporta male gli viene stracciata la tessera: lo fanno le società, non la federazione. Dubito che lo si farà in Italia, anzi temo che mettendo in discussione la discriminazione territoriale si finirà anche per cercare un grimaldello per sdoganare il razzismo. E questo è preoccupante».

Non c’è il rischio che la discriminazione territoriale, interpretata troppo rigidamente, sanzioni anche la goliardata?
«Sì, c’è. Questo è uno sforzo che dovrebbe fare la Federazione: si deve fare chiarezza sui criteri. Spieghino loro che cosa intendono per discriminazione, in modo da dare regole certe. Nei Paesi europei non sono vietati tutti gli striscioni, sono vietati quelli che hanno contenuti vietati. In Italia non si è fatta chiarezza sui contenuti, i libretti con i simboli vietati non ci sono. Ma così il rischio è quello di un calderone che fa solo danni».  

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