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mercoledì 16 ottobre 2024
 
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Lea Garofalo, un femminicidio in un contesto di 'ndrangheta

23/11/2021  Al processo per l'omicidio l'aggravante mafiosa non è stata contestata, ma si ritiene che il suo caso sia emblematico delle dinamiche che riguardano le donne nell'organizzazione criminale

Il caso di Lea Garofalo si potrebbe definire un femminicidio in un contesto di ‘ndrangheta, uccisa dal compagno, per usare le parole del Pm, in requisitoria del processo di primo grado per un mix di «odio personale e onore criminale». Al processo per l’omicidio, infatti, l’aggravante mafiosa non è stata contestata: si era nell’epoca in cui ogni volta occorreva provare in giudizio non solo l’appartenenza al clan ma l’esistenza stessa dell’organizzazione. La sentenza definitiva che ha messo per la prima volta nero su bianco la parola ‘ndrangheta come organizzazione unitaria doveva ancora venire, è arrivata il 7 giugno 2014, quando la Cassazione ha confermato il troncone a rito abbreviato del cosiddetto processo Infinito, esito di un’indagine nata a Milano tra il 2009 e il 2010. Da quel momento in poi l’esistenza dell’organizzazione criminale chiamata ‘ndrangheta non va più dimostrata daccapo a ogni processo.

Ma al tempo dell’omicidio di Lea Garofalo il rischio sarebbe stato complicare in giudizio un processo che invece come omicidio, aggravato non dalla componente mafiosa ma dalla premeditazione, si poteva provare, come poi è stato, arrivando agli ergastoli. Tanto più che il compagno di Lea Garofalo, che ha confessato l’omicidio, aveva a suo carico condanne in giudicato, nessuna delle quali per associazione mafiosa, benché facesse del suo meglio per accreditarsi presso l’organizzazione. Nella sentenza di appello, poi confermata in Cassazione, «al di là dell’inserimento in un contesto più o meno mafioso» si iscrive comunque l’omicidio «in una sottocultura che non è incline a tollerare lo svilimento della figura maschile e del suo ruolo primario all’interno della coppia da parte di una donna. Tanto meno nell’ambito di una ancor più ristretta logica di matrice criminale».

Lea Garofalo è ricordata tra le vittime innocenti di tutte le mafie nella Giornata della memoria e dell’impegno, che Libera dedica loro ogni anno il 21 marzo, anche se l’aggravante mafiosa non figura nella condanna di mandanti ed esecutori del suo omicidio. Perché in quel contesto il suo caso è maturato, perché anni dopo la sua morte, persone sono state arrestate anche a seguito di indagini innescate dalle sue testimonianze e perché il contesto in cui è cresciuta e il modo con cui la sua storia s’è dipanata ha a che fare con la considerazione delle donne nella ‘ndrangheta.

ENZO CICONTE: "SE MAI LA 'NDRANGHETA FINIRÀ SARÀ PER LE DONNE"

«Le donne nella ‘ndrangheta, secondo la logica mafiosa, devono essere ubbidienti e sottomesse», spiega Enzo Ciconte, docente di Storia delle mafie italiane all’Università di Pavia, da sempre studioso in particolare delle dinamiche ‘ndranghetiste. «Qualsiasi cosa le spinga a non essere così, costituisce un’offesa all’onore e quella di Lea è una ribellione a questa impostazione ipermaschilista della ‘ndrangheta, una organizzazione che, quanto ad antifemminismo, non ha eguali: il contesto è quello, al di là dell’esito giudiziario, l’omicidio di Lea Garofalo nasce in quel contesto malato e malvagio, tipico di quella cultura, dentro la quale Lea Garofalo ha vissuto, conoscendone gli stilemi, i messaggi e i codici. Quando si è ribellata, sapeva a quali rischi andava incontro. Ha agito con passione e determinazione per salvare la figlia, Denise, ed è stata uccisa».

Incrinare la “blindatura” mafiosa nella ‘ndrangheta è anche più di difficile che in altre organizzazioni: lì la famiglia, intesa come legame di sangue, a differenza che in Cosa Nostra, prevale sul vincolo mandamentale: un fatto che rende rarissima la collaborazione nel contesto calabrese, perché chi collabora tradisce non solo i “compari”, ma i suoi familiari: padre, fratelli. «Sono convinto di un fatto», asserisce Ciconte, «sconfiggeremo la ‘ndrangheta come l’abbiamo conosciuta quando le donne della ‘ndrangheta decideranno di chiudere questa storia, perché l’elemento femminile ha un ruolo importante per quanto riguarda i collaboratori di giustizia: spesso hanno dietro una moglie che li spinge a collaborare e il motore di questa spinta è la tutela dei figli. E spesso chi non collabora ne ha dietro una che lo minaccia: se fai lo sbirro non vedrai più i tuoi figli. Oggi questo ricatto è tremendo, forse vent’anni fa avrebbe pesato meno, ma oggi il figlio piccolo è il dominus della famiglia».

I riti di affiliazione citano le donne solo per dire che madre e sorella portano l’onore, "cornuto" non per caso è il massimo dell’insulto in quei contesti: «I riti nati nell’800 quando la donna contava zero hanno sempre segnalato quelli che non potevano partecipare perché avevano macchie d’onore personali o familiari: chi per esempio non vendicava con il sangue una donna violentata in famiglia; chi aveva tendenze sessuali non conformi a quella cultura maschilista; chi portava una divisa. In nessun punto si dice: la donna non può partecipare, questo da un lato rende l’idea della nulla considerazione, dall’altro, non la esclude completamente: si sa che c’è una “dote”, un “fiore” come lo chiamano loro, quello di “sorella dell’umiltà”, riservato alla donna: che non viene affiliata, che formalmente non può fare il capo, ma che in qualche modo può partecipare. Oggi ci sono molte donne che comandano le ‘ndrine senza essere state ritualmente riconosciute, perché gli uomini sono in galera, l’organizzazione deve andare avanti e le donne di famiglia provvedono, anche perché a differenza del passato non si tratta di ordinare guerre o faide, ma di governare affari, ancorché loschi».

E infatti a volte finiscono nelle maglie della giustizia, magari stanate da direzioni distrettuali antimafia sempre più femminili. Milano è stata la prima dal 2009 a vedere avvicendarsi due donne al vertice, prima Ilda Boccassini, ora Alessandra Dolci: «E anche in questo caso», spiega Ciconte, «la presenza delle donne non è stata ininfluente: finché la magistratura è stata appannaggio maschile (fino al 1965) di donne di mafia negli atti giudiziari non se ne sono viste, quando sono entrate le donne in magistratura, requirente e giudicante, si è cominciato progressivamente a vederle: segno che le magistrate sono riuscite a far capire ai colleghi maschi che non era così vero che dentro le organizzazioni le donne non contassero, anche se non figuravano. Solo una magistratura composta solo di maschi avrebbe potuto credere a una cosa così».

 
 
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