Quando alla sera mamma e papà la salutavano, non sapevano se l’avrebbero rivista il mattino dopo. Aurora era piccola, piccolissima, lì nella culla a vetri della terapia intensiva neonatale, intubata e sofferente. I medici allargavano le braccia e non nascondevano le loro perplessità: «L’impressione era che neppure loro sapessero cosa aveva nostra figlia», racconta oggi Antonella, 35 anni, un passato recente da impiegata e un presente da mamma a tempo pieno di questa bella bambina bionda che oggi ha due anni e mezzo. «I problemi respiratori erano stati subito chiari: Aurora aveva le narici completamente chiuse, quindi non è riuscita a respirare da sola appena nata».
Una diagnosi certa. Un esordio drammatico, poi corretto con due interventi chirurgici. Ma era solo l’inizio. Nonostante le operazioni che le liberano i condotti nasali, Aurora continua ad avere bisogno, a intervalli imprevedibili, del tubo che la aiuta a respirare. «Un minuto prima respirava, poi si bloccava e non capivamo perché», ricorda Antonella con una punta di angoscia nella voce. «Era un continuo mettere e togliere il tubo, un’alternanza tra sollievo e disperazione. Finché ulteriori analisi hanno messo in luce un problema cardiaco». Un dotto chiuso, un’anomalia non difficile da correggere ma pericolosa, poi sistemata con un altro intervento. Che, a suo modo, segna una svolta: «Dopo l’operazione al cuore l’atteggiamento dei medici cambiò», continua la mamma, «anche perché iniziarono a collegare i sintomi e a pensare che Aurora potesse essere affetta da una malattia genetica rara: la sindrome di Charge». Una patologia seria e complessa, ma una diagnosi certa è pur sempre meglio del buio assoluto.
La piccola Aurora.
La conferma arriva quando la piccola ha tre mesi, e Aurora comincia i test che permettono di stabilire l’entità delle altre lesioni. Innanzitutto la sordità, che viene certificata in un primo momento «grave e profonda» e la porta a indossare delle protesi, poi la vista, che sicuramente è danneggiata ma non si sa ancora quanto, infine l’alimentazione, da subito molto difficile, tanto da essere assicurata con una peg. «Siamo usciti dall’ospedale che Aurora aveva sette mesi e mezzo, anche se ne dimostrava meno», continua Antonella. «Era ipotonica e si muoveva poco; per questo abbiamo iniziato fisioterapia e logopedia a un ritmo molto intenso. È stata dura, ma è servito perché ha impedito che nostra figlia potesse “addormentarsi” e isolarsi dal resto del mondo».
E proprio l’obiettivo di tenere Aurora ben presente alla realtà porta questa mamma sempre sorridente e ottimista a contattare la Lega del Filo d’Oro. «La conoscevo già», dice, «e anche alcuni genitori di bambini con problemi simili ai nostri ci avevano consigliato di rivolgerci a loro, presentandoceli come veri esperti. Non si sbagliavano». Antonella, il marito Gabriele, l’altra figlia Beatrice e Aurora arrivano a Osimo all’inizio del 2015, quando la piccola ha 14 mesi. «Non teneva ancora su la testa ed era messa male a livello motorio», continua la mamma. «Noi eravamo fiduciosi, ma abituati all’ambiente e ai ritmi degli ospedali non sapevamo esattamente cosa aspettarci. Finché abbiamo scoperto un altro mondo».
Niente camici bianchi, lunghe corsie asettiche, personale occupato in mille faccende: alla Lega del Filo d’Oro Aurora è circondata da operatori sorridenti che si dedicano a lei, gli orari sono liberi, gli ambienti caldi e colorati. In meno di quattro settimane l’équipe dell’Associazione riesce a farle guadagnare una posizione semi seduta, ma soprattutto scopre che vede da entrambi gli occhi, seppur a fatica per una forte miopia, e che la sordità non è «grave» ma «media», e fa ben sperare in un possibile recupero.
Quando, tornata a casa, mette gli occhiali adatti a lei, e lascia le vecchie protesi per altre più calibrate, è come se uscisse dal guscio. «Dopo il soggiorno a Osimo ha fatto passi da gigante», ricorda ancora la mamma. «E così abbiamo scoperto la vera Aurora: una bambina socievole, simpatica, curiosa, che adora stare al centro dell’attenzione e ricevere le coccole della sorellina, che stravede per lei. Ma è anche una tosta: se dice di no, è no» sorride Antonella. Tanta voglia di vivere Quando al primo trattamento ne segue un altro, pochi mesi fa, i progressi si fanno ancora più evidenti. Oggi Aurora frequenta il nido e gioca volentieri con i compagni, si diverte ad andare su e giù col triciclo, adora ridere e fare scherzetti: insomma è una birba di due anni e mezzo, piena di voglia di vivere e di crescere come tutti gli altri bambini della sua età. «Senza l’aiuto della Lega del Filo d’Oro tutto questo non sarebbe stato possibile», sintetizza Antonella. «Loro sono riusciti a “tirarla fuori”, a far emergere quello che in lei già c’era, ma era invisibile a causa della malattia. Ora so che ce la farà, perché, come mi hanno detto alla “Lega”, Aurora ha bisogno di aiuto, ma dentro di lei c’è già tanto. E questo per me è quello che conta».
Nel 2016, delle 291 persone trattate al Centro nazionale di Osimo della Lega del Filo d’Oro, il 34% è affetto da malattie rare, di cui oltre il 60% ha un’età compresa tra i 5 e i 18 anni, l’11% ha un’età compresa tra 0 e 4 anni e poco meno del 20% sono adulti e hanno un’età superiore ai 26 anni. Le malattie rare hanno nomi difficili, colpiscono circa 1 nato su 2000, non esistono sufficienti studi clinici, presentano caratteristiche particolari e sono tra le prime cause di sordocecità e pluriminorazioni psicosensoriali.
Nel loro insieme le malattie rare sono molto numerose, infatti l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che ne esistono tra 6.000 e 7.000 distinte e colpiscono complessivamente circa il 3% della popolazione. In totale si stimano tra 27 e 36 milioni di persone coinvolte nella sola Unione Europea di cui circa 1-2 milioni in Italia.
«È importante che attorno ai genitori di bambini affetti da sindromi rare ci sia una rete di professionisti e persone dal volto amico che offrano accoglienza e sostegno», sostiene Patrizia Ceccarani, Direttore Tecnico Scientifico della Lega del Filo d’Oro. «Anche perché la famiglia, insieme alla guida di esperti, è cruciale per lo sviluppo di un bambino affetto da queste malattie; quando un genitore riesce a comprendere le difficoltà del figlio, si trova nella condizione migliore per prendersene cura e facilitare lo sviluppo delle sue potenzialità».
Altro elemento decisivo è l’intervento precoce, entro il primo anno di vita, o comunque appena si raggiunge una diagnosi certa. «Nell’intervento precoce si cerca di far utilizzare al meglio le risorse residue e di sviluppare strategie alternative», continua la dottoressa Ceccarani. «La presa in carico è globale, mirata a far acquisire al piccolo la comunicazione, l’utilizzo dei residui visivi o uditivi e degli altri sensi, lo sviluppo delle abilità motorie, psicomotorie e cognitive, le autonomie personali e il gioco».