Una legge nata male. Che ha sollecitato in molte diocesi l'invito all'obiezione di coscienza da parte dei medici. L’approvazione definitiva in Parlamento della legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento (il cosiddetto testamento biologico) è ben rappresentata dalle lacrime di gioia della radicale Emma Bonino, fautrice da sempre di quel “principio di autodeterminazione” in materia di inizio e fine vita, figlio a sua volta di quel “liberismo etico” che caratterizza il relativismo della società moderna.
Oltre a due presidenti emeriti della Cei, i cardinali Angelo Bagnasco e Camillo Ruini, nel dibattito è intervenuto anche l’arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia. Monsignor Nosiglia ha incoraggiato don Carmine Arice, superiore generale del Cottolengo, per la scelta di ricorrere all'obiezione di coscienza contro le Dat. Anche un appello alla "disobbedienza civile" viene lanciato a tutti i medici dal Movimento per la vita.
Le norme si prestano ai cosiddetti “abbandoni terapeutici” e aprono la strada a pratiche che la legge di per sé non prevede, ma che potrebbero arrivare una volta che si sono violati alcuni principi sacri per la vita: pratiche come l’eutanasia o addirittura il suicidio assistito, come quello del Dj Fabo, accompagnato a morire in una clinica svizzera dal radicale Marco Cappato. Questa legge, insomma, da anni invocata dai cattolici, è un’occasione mancata poiché, per adoperare le parole del direttore dell’ufficio per la Salute della Cei, don Massimo Angelelli, “tutela i medici sollevandoli da ogni responsabilità, tutela le strutture sanitarie pubbliche, tenta di ridurre la medicina difensiva spostando sul malato l’onere della responsabilità delle scelte, ma sembra poco efficace nella tutela dei sofferenti. Sono molte le incertezze nella applicabilità di questa legge”. Eppure i sofferenti dovevano essere il punto di partenza, il nodo centrale di questa legge.
I “vulnus” della normativa sono ormai noti, a cominciare dall’esautoramento dei medici e da una debole, debolissima “alleanza terapeutica” che dovrebbe essere alla base delle cure di un paziente in fina vita, ovvero di quell’intesa tra medico, paziente e parenti del malato. Anche noi, come ha scritto il direttore dell’Avvenire Marco Tarquinio, “siamo tra quanti credono che la generosa umanità del personale sanitario italiano e le naturali prudenza e saggezza dei piccoli e dei deboli eviteranno i danni più gravi, ma non possiamo tacere quanto deluda e allarmi la miopia e la retorica vuota dei troppi parlamentari che hanno votato “sì” straparlando del diritto finalmente riconosciuto a una morte degna”.
Non è una morte degna quella che avviene per disidratazione o interruzione della nutrizione. Il Papa aveva ben delineato i confini dell’assistenza al malato in fine vita. Anche l’alleanza terapeutica infatti ha due limiti ben precisi: da una l’eutanasia, dall’altra l’accanimento terapeutico. Sono due confini invalicabili. In mezzo le cure palliative, regolate da una legge che funziona, e che dona al paziente la possibilità di vivere fino in fondo la sua vita fino al momento più estremo. Dunque ben venga la disobbedienza civile ogni qual volta i medici e gli operatori sanitari lo ritengano necessario.