I professori di Diritto penale riuniti nell’associazione italiana omonima (Aipdp), preoccupati per i contenuti delle iniziative parlamentari in tema di riforma della legittima difesa e soprattutto per «i messaggi ingannevoli che si stanno diffondendo nell’opinione pubblica», hanno preso carta e penna per dire la loro in un comunicato. Nel quale spiegano in soldoni tre cose, a loro ben chiare per il lavoro che fanno, che potrebbero sfuggire e in effetti sfuggono ai profani.
Primo: la promessa di scrivere una legge che possa evitare un’indagine davanti a un ferito o un morto ammazzato è una bufala. L’indagine ci sarà sempre perché si tratterà di verificare se sia stato necessario difendersi o se è accaduto qualcosa di diverso. Secondo: Quand’anche la si scrivesse come si racconta, sarebbe una norma incompatibile con la Costituzione, con le convenzioni e il diritto internazionale. Terzo: «Chi propone la riforma sa benissimo tutto ciò ma, non dicendolo all’opinione pubblica, non rende un servizio alla verità».
I professori non usano giri di parole: «Il dibattito sulla riforma della legittima difesa promette oggi all’opinione pubblica vantaggi illusori, perché la riforma annunciata è presentata in modo ingannevole. I cittadini devono infatti essere informati che, se si uccide o si ferisce qualcuno, nessuna riforma potrà mai assicurare che non vengano svolti accertamenti penali o che essi siano meno approfonditi di quelli che si compirebbero in caso di uccisione del cane del vicino (per verificare il delitto di uccisione di animali: art. 544-bis c.p.). Le indagini processuali saranno invece necessariamente maggiori. Si possono infatti eccedere i limiti della difesa anche intenzionalmente (per dare una bella lezione all’aggressore): fatto punito ovunque, non solo in Italia. E verificare se l’eccesso sia stato intenzionale, oppure no, comporta già un’indagine penale. Che è obbligatoria, non discrezionale».
«La causa di giustificazione della legittima difesa», spiegano i professori, mai da nessuna parte è stata «licenza di uccidere, poiché la legittimità della difesa è stata sempre subordinata a requisiti: primo fra tutti la necessità di difendersi, in assenza della quale non si parlerebbe più di difesa, ma di offesa gratuita e deliberata. Nel requisito della necessità è implicita un’idea di proporzione della difesa rispetto all’offesa, poiché una difesa volutamente sproporzionata cesserebbe di essere difesa e assumerebbe i contenuti di un’offesa».
Per questo: «L’idea di introdurre un “diritto di difesa” che prenda il posto della legittima difesa – come vorrebbe la proposta di legge n. 580 – (…) introduce una licenza di uccidere ancorata semplicemente a un rapporto cronologico tra aggressione e “difesa”: non basta, dicono i professori, scrivere nella legge che si presume sempre «il requisito della proporzione della difesa, (come nelle proposte di legge n. 274, 308 e 580 attualmente all’esame della Camera dei deputati), si dovrà comunque verificare che difendersi sia stato necessario. «Il solo e vero problema consiste nello stabilire quando ricorra il requisito della proporzione e sia scusabile un eccesso di difesa: che si tratti di un problema da sempre avvertito come assai delicato lo dimostra l’antico detto secondo cui l’aggredito che si difende “non ha la bilancia in mano” (non habet staderam in manu)».
«Al fine di evitare l’accertamento del giudice penale», ribadiscono, «non servirebbe neppure restringere le ipotesi punibili, fino a limitarle ai casi di vendetta intenzionale mascherata da difesa legittima, dovendosi necessariamente considerare i casi in cui la sproporzione sia dipesa non da intenzione malevola che si “approfitta” dell’aggressione per togliere di mezzo un ladro o un rapinatore, ma da un grave turbamento (che c’è sempre, di regola, nella legittima difesa domiciliare) e tuttavia l’aggredito abbia esagerato in modo molto evidente nel procurare all’aggressore un danno ben più grave di quello temuto. Anche qui la verifica sulle reali intenzioni dell’aggredito sarebbe necessaria, e dunque inevitabile la sua iscrizione nel registro degli indagati, salvo l’evidenza del contrario».