“Sono ancora viva perché ho uno spiccato istinto di sopravvivenza. Prima del 10 maggio 1996 nutrivo dubbi su me stessa. Dopo l'Everest, qualcosa di fondamentale dentro di me ha trovato pace. So di essere una visionaria e so di avere ciò che serve per realizzare i sogni. So che posso sopportare i sacrifici che derivano da scelte non convenzionali. Sono riconosciuta e apprezzata per la mia capacità di mobilizzare le altre persone, dovuta alla mentalità che mi ha portata in cima e poi m’ha fatta tornare dall'Everest”.
Un giorno e una notte che le hanno cambiato sua vita. Il 10 maggio 1996 Lene Gammelgaard conquistava, prima donna scandinava, la vetta dell’Everest. Il sogno di un’esistenza che s’avverava. Poche ore dopo diventava una sopravvissuta di una delle più grandi tragedie nella storia dell’alpinismo. In quella notte perirono otto persone tra cui il capo spedizione e amico fraterno Scott Fischer. Lene, autrice del bestseller “Climbing hight” ( traduzione italiana per piemme “Everest. Io c’ero”) ora vive a Copenaghen, è psicoterapeuta e ha fondato una società di consulenza. In questi giorni è uscito il film “Everest” che racconta quella drammatica vicenda. L’abbiamo raggiunta per chiederle, a distanza di quasi vent’anni da quella tragedia, di tornare a quella notte e soprattutto a cosa sia accaduto nella sua esistenza dopo il 1996.
Come ha cambiato la sua vita quella disgrazia?
“Negli anni in cui sono stata più a contatto con la natura ho avuto esperienza di forze colossali che fanno sentire l'essere umano davvero insignificante. Nella preparazione all'Everest, sapevo bene che uno su dieci ci lascia la vita. Così la morte in montagna come nella vita in generale non è una sorpresa per me. Sapevo che Scott sarebbe morto su qualche montagna. Sfortunatamente capitò proprio nella nostra spedizione. Quando scesi dalla cima nella tempesta, si realizzò tutto quello che mi immaginavo potesse comportare lo stare sulla montagna più alta al mondo".
Scrivere un libro su quella tragedia le è stato d'aiuto per superarla?
“Certo. Scrivere m’è servito a liberare la mia mente dal trauma, per quanto fosse possibile. Il mio libro è stato un'umile testimonianza oculare di alcuni frammenti della realtà che ho vissuto. La scelta di non interpretare o aggiungere qualsiasi altro elemento ai fatti avrebbe potuto creare una lettura migliore della tragedia”.
Che cosa le ha portato via per sempre quanto accaduto in quelle ore?
“Scott Fisher morì e un anno dopo morì pure Anatolij Bukreev, a causa di una valanga sull'Annapurna. Due miei grandi amici se ne sono andati e con la loro assenza la mia vita ha perso importanza. Io volevo vivere avventurosamente con loro. Senza di loro non più così tanto. Così la mia vita è diventata più sedentaria e meno ambiziosa. Per anni ho fatto spedizioni, cercando inconsciamente compagni carismatici per sostituire chi avevo perso. Fino a quando non è stato più possibile. Così ho perduto per sempre le avventure allargate che loro mi proponevano di condividere".
Perché quella del 1996 è diventata “la tragedia” per eccellenza in montagna?
“Presumo che dipenda dal fatto che quella era la prima volta che, grazie alle nuove tecnologie, era possibile una copertura mediatica in tempo reale. E poi probabilmente anche il fatto che furono coinvolti tanti alpinisti di fama internazionale. Così divenne una specie di “Titanic” ma sull’Everest. Sconcertante”.
Questa tragedia ci ha insegnato qualcosa nel modo di scalare le montagne? Oppure no? "Onestamente io sia prima del 1996 che dopo sono sempre stata della convinzione che chiunque decida di provare a scalare l'Everest debba avere la totale consapevolezza di essere in grado tanto di salire quanto di scendere con le proprie forze. Mai aspettarsi che qualcuno lo guidi o lo salvi. L'alpinismo è un'attività ad alto rischio. Lo è sempre stata e sempre lo sarà”.
Il suo impegno a favore delle famiglie e dei bambini Sherpa ha a che fare con quanto ha vissuto in Himalaya?
“Si. Più tempo trascorro con loro e più imparo. Sono cambiata attraverso il contatto con loro. E noi nel "mondo bianco" non li percepiamo ancora del tutto come uomini alla pari”.
Ha visto il film “Everest” presentato all’ultima mostra del cinema di Venezia? “Ero stata informata che Hollywood avrebbe usato la nostra esperienza come trama per un colossal. L’ho visto e mi piace. Devo dire che dentro c'è tutto. Il regista Baltasar Kormakur ha ben rappresentato tutte le persone che sono morte. Ma penso che ci sia spazio per fare almeno un altro film come Everest. Riguardo alla mia figura, sono state tagliate alcune scene nella versione definitiva. Peccato, sono stanca di vedere nei film donne forti e competenti non rappresentate come tali".