«Quasi due anni e un cuore che aspettava un intervento risolutivo da troppo tempo. «La bambina era gravissima, ma ce l’abbiamo fatta. È stata la mia prima missione in Giordania, e quando siamo usciti dalla sala operatoria mi sono accorto dei genitori, giovanissimi, provati: erano profughi siriani, fuggiti da chissà quali tragedie e violenze…».
Sergio Filippelli è cardiochirurgo del Bambino Gesù. Originario di Vigevano, 44 anni, fa parte del team del professor Fiore Salvatore Iorio che, tre-quattro volte all’anno, va in missione in Paesi che hanno bisogno di una mano. Per operare i piccoli pazienti o per istruire i medici che opereranno nei nascenti reparti di cardiochirurgia pediatrica.
La missione che i due chirurghi stanno seguendo in questi anni è dedicata ai bambini siriani ospitati nel campo profughi Al Zaatari in Giordania. Una scelta non casuale, vista l’attenzione di papa Francesco al tema dei rifugiati e alle periferie del mondo. La “politica” dell’ospedale del Papa è infatti sempre stata indirizzata dagli obiettivi apostolici del Pontefice di turno.
«Le missioni sono iniziate con Giovanni Paolo II. Ricordo che il cardinale Angelini, allora a capo del dicastero vaticano per la salute, nel 1991 ci mandò a operare a Cuba. All’inizio non afferrai il senso della cosa; poi, quando sei mesi dopo ci inviarono a Varsavia, tutto fu chiaro: il Papa aveva capito che, più che inviare i nunzi nei Paesi dove il comunismo si stava sgretolando, si doveva intervenire con i medici», dice Iorio. Oggi con papa Francesco, e sotto la guida dell’attuale presidente Mariella Enoc, l’ospedale ha allargato le sue porte sul mondo. Per esempio, nella Repubblica Centrafricana, il Bambino Gesù, oltre a sostenere la ristrutturazione del complesso pediatrico esistente a Bangui, assumerà e formerà il personale operante nella struttura, garantendo stage di perfezionamento in Italia per neo-specializzati e professori della Facoltà di medicina.
MISSIONE: CURARE I BAMBINI
Africa, Cina, Azerbaigian, Paesi Arabi: «Dalle missioni», dice Iorio, «ho capito prima di tutto che i bambini e i genitori sono tutti uguali, qualunque sia la lingua o la cultura. E dappertutto quella che conta è la mamma. Anche se in alcuni Paesi restano sulla soglia, quando cominci a parlare del figlio danno una gomitata al marito e si seggono loro. Devi trattare con la mamma, il padre non conta niente. Le mamme cinesi o arabe fanno le stesse cose delle nostre mamme».
Raccontare gli intrecci tra professione, vita di famiglia e cammini spirituali è come seguire disegni geometrici mai banali, con tratti lineari, curve e ritorni: «Adoro i bambini. Ho sempre saputo di voler fare il pediatra, e al liceo, dopo aver studiato il cuore, capii che mi sarei occupato di bambini cardiopatici. Al secondo giorno di università decisi che sarei stato un cardiochirurgo», dice Filippelli. Quattro figli, moglie cardiologa sposata ad Assisi («Siamo una famiglia consacrata a san Francesco»), ammette che il percorso lavorativo scelto non è dei più facili, «anche per la complessità del carico emotivo». L’obiettivo, spiega, «è cercare ogni giorno di fare il meglio per i pazienti. Non sempre vuol dire guarirli, spesso abbiamo a che fare con malattie incurabili, ma prendersi cura della famiglia e del bambino in ogni momento, cercando di trovare le soluzioni più giuste».
Sorride, Iorio, quando deve spiegare perché proprio Cardiochirurgia pediatrica: «Quando ho scelto questo lavoro, anni fa, Cardiochirurgia pediatrica era l’unico reparto dell’ospedale che aveva un buon odore: i bambini profumano». Erano gli anni del pionerismo, le operazioni al cuore erano una frontiera della medicina, Christian Barnard (il primo chirurgo a realizzare un trapianto, ndr) un eroe. «E mentre in altri settori si era raggiunta una certa saturazione di posti, qui si poteva ancora sperare di progredire e di lavorare senza avere nessuno aiuto alle spalle».
Originario dell’Irpinia, l’attuale capo di Cardiochirurgia infantile del Bambino Gesù ha iniziato giovanissimo a lavorare con Carlo Marcelletti, l’uomo chiamato da Amsterdam a far partire il reparto di cardiochirurgia dell’ospedale del Papa. Lo lascia nel ’97, lavora in diverse realtà italiane, un paio di anni in Arabia Saudita, e poi torna al Bambino Gesù, prima a Catania e quindi a Roma, da dirigente. Negli anni, dice, ha capito che le cose che si devono realizzare alla fine seguono percorsi imprevedibili. Ha imparato a gustare sempre più la bellezza del suo lavoro e la ricchezza delle missioni che permettono un contatto non mediato con la gente del posto; e a ha saputo anche fare i conti con i limiti della sua professione.
«All’inizio hai come la sensazione che non devi perdere tempo, stai facendo una cosa importantissima. Poi ti rendi conto che l’impresa non è tua. Sarai pure bravo, ma da solo non vai da nessuna parte. Tra fare il buon medico e farlo per se stessi è un passo, bisogna tenere a bada il narcisismo. Questo la presidente Enoc ce lo ricorda continuamente: anche dopo successi internazionali è la coralità che deve venire fuori, facciamo tutti parte di un progetto più grande di noi».
«ARRIVIAMO DOVE POSSIAMO»
Iorio viene da una famiglia ricca di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa, un famoso zio esorcista, e una giovinezza in ricerca, fatta di letture molto diverse tra loro.
«Una ventina di anni fa», dice, «ho cominciato a rendermi conto di alcune coincidenze, quelle che uno scrittore spagnolo chiama “l’occhiolino di Dio”. Mi colpì molto la morte di Giovanni Paolo II proprio nel giorno della Divina misericordia, la festa che lui stesso aveva voluto». In contemporanea ci fu «una visita al duomo di Monza, alla corona ferrea. Mi fermai incantato davanti al pavimento della chiesa» e si fece più forte il richiamo di una nostalgia antica.
Se ne accorge anche l’amico parroco, sotto casa, a Roma, che lo invita a «fare il salto». «È come quando vai a cercare nell’agendina il telefono di un amico che non vedi da anni, ma in quel momento hai voglia di risentire…». Riparte il rapporto con «il “padrone della fabbrica”, Colui che ne capisce più di te». È questo il pensiero che lo conforta quando, per esempio, si trova «nella situazione di non poter fare nulla per una guarigione impossibile. Noi arriviamo fin dove possiamo, Lui lo sa… E avrà predisposto qualche altra cosa».
Di fronte al dolore, aggiunge Filippelli, «spesso mi sono chiesto “perché”, ma so che non siamo nessuno per sostituirci a Dio. Nel tempo ho imparato che una vita ha senso anche se è nella sofferenza, anche se dura pochi giorni, poche ore. In quel tempo a noi tocca semplicemente amarla e metterci nella condizione quanto meno di alleviarne il dolore».
L’ANNIVERSARIO. UNA STORIA DI CARITÀ LUNGA 150 ANNI
Fondato nel 1869 in una piccola stanza nel centro di Roma, oggi è una struttura d’eccellenza rimasta fedele al suo mandato
«Il futuro è contenuto nella memoria viva delle nostre radici. Il Bambino Gesù è nato da un’idea alta di carità a cui si è mantenuto fedele in 150 anni e, ora come allora, la forma più alta di carità è la scienza, la competenza dell’assistenza, la ricerca senza soste»: con queste parole la presidente Mariella Enoc, il 19 marzo, ha dato il via alle celebrazioni per il 150° di fondazione dell’“Ospedale del Papa”, alla presenza del presidente Sergio Mattarella e del segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin. Fondato dalla duchessa Arabella Salviati il 19 marzo 1869 in una piccola stanza nel centro di Roma, il primo vero ospedale pediatrico italiano oggi è un’eccellenza mondiale, con quattro poli di cura e 607 posti letto. Ogni anno esegue oltre 28 mila ricoveri, 29 mila procedure chirurgiche e interventistiche, 84 mila accessi al pronto soccorso, oltre 1 milione e 900 mila prestazioni ambulatoriali. Svolge missioni in Cambogia, Repubblica centrafricana, Giordania, Siria, India, Tanzania, Georgia, Russia, Cina ed Etiopia. Intitolato al Bambino Gesù da papa Pio IX, fu visitato per la prima volta da un Papa, Giovanni XXIII, nel 1958. Per il 2019 è previsto l’ampliamento della sede di Palidoro, l’apertura di un centro per le cure palliative pediatriche e la costruzione di un centro per la cura dei tumori e per i trapianti.