«Interprete disperata delle tragedie della sua città, capace tuttavia di cicatrizzare le ferite e di continuare. Impegno civile come dovere etico e morale. E ancora fotografa. Che con dolore accetta di continuare, di superare lo strazio e la pietà, per impedirci di dimenticare. Letizia. Appunto».
Giovanna Calvenzi, fotografa, photoeditor, dal 2010 con Letizia Battaglia. Sulle ferite e sui sogni (Bruno Mondadori) biografa ufficiale, ma soprattuto amica di Letizia Battaglia, nel suo contributo per la mostra, la descrive così. Poche parole incise che spremono il succo della storia di Letizia e insieme il senso della mostra Anthologia che dopo lo Zac di Palermo e il Maxxi di Roma, si appresta a migrare, dal 1 luglio al 3 settembre 2017, a Palazzo Tadea a Spilimbergo (Pordenone) nell'ambito di Friuli Venezia Giulia Fotografia), il festival ormai storico promosso dal Craf (Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia.
Il titolo dice già tutto: un'antologia, oltre 140 immagini, tratte da un repertorio di oltre 600.000, la sintesi di una vita di lavoro, l'omaggio, forse il debito di riconoscenza di una città complicata alla sua testimone più presente, quella che c'era sempre e che ha costretto Palermo e il mondo a guardare nel fondo dell'abisso, a non voltarsi di là. A non dimenticare.
«Una mostra antologica che mette in luce i diversi aspetti del lavoro di Letizia Battaglia; concepita come un unicum polifonico dove amore e dolore, sangue e compassione, tragedia e sogno si mescolano in un percorso dal forte impatto emotivo, riflettendo il suo coraggio e la sua grandezza». Scrive Paolo Falcone, curatore della mostra.
Quando nel 1978 scoppia la guerra di mafia Letizia lavora per l'Ora di Palermo e dalla sua vita, e da quella del suo compagno e collega Franco Zecchin, scompaiono i sabati, le domeniche, le Pasque, i Natali, il confine tra il giorno e la notte. Si corre dovunque ci sia un morto ammazzato. «C'era paura sì», racconta Letizia in un video documentario destinato all'estero e pubblicato sul suo sito ufficiale, «Abbiamo avuto le macchine gettate a terra e la Polizia che ci diceva "via di qui che scoppia un casino". La prima volta - c'era stata una strage di sette persone - pensammo che fossero episodi sporadici».
E invece erano l'inizio di quindici anni di morti per strada. E non per caso nelle sue foto ci sono tutti, da vivi e da morti: Ninni Cassarà, Boris Giuliano, Piersanti Matterella, Giovanni Falcone. Una delle più famose è l'immagine dell'arresto di Leoluca Bagarella in ceppi, la ferocia del suo sguardo braccato. Ci sono gli eroi proprio malgrado e i loro nemici dichiarati in quelle foto, c'è, a nudo, la storia di una città, bianco, nero e grigio. Ma c'è anche un'altra Palermo, quella dei bambini, delle feste mondane, delle celebrazioni religiose, e la mostra rende conto di tutto, degli innocenti, degli ignari, del quotidiano, miserie e nobiltà, insomma dell'anima della città, compresi gli intrecci che non si svelano ma che chi conosce la storia può immaginare.
«Non ho mai pensato», racconta alla telecamera dal documentario, «di essere coraggiosa, pensavo a fare belle foto. Le nostre immagini dicevano succede questo e noi siamo qui. Ho sentito come un obbligo di esserci e testimoniare con le mie foto. Volevo che tutto il mondo sapesse quello che la gente stava soffrendo. Abbiamo sofferto e abbiamo creduto in una possibilità di combattere la mafia. Hai anche paura ma è la tua vita, la cosa che sai e che ti piace fare. Credo nella giustizia, mi piace camminare per Palermo e sedermi, come fanno gli ubriaconi a ogni taverna, a bere un un bicchiere di realtà. La macchina necessaria è il mio necessario complemento, soltanto scrivendo, come sognavo di fare all'inizio, non ce l'avrei fatta».