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lunedì 04 novembre 2024
 
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Leto, inno alla libertà a tempo di rock di un regista arrestato

11/05/2018  La grande musica irrompe sulla Croisette con il film del russo Serebrennikov, attualmente agli arresti domiciliari, ambientato nell'Unione Sovietica degli anni '80, quando i giovani, ascoltando David Bowie e i Velvet Underground sognavano un futuro migliore.

La musica diventa protagonista alla settantunesima edizione del Festival di Cannes. Leto di Kirill Serebrennikov trasporta il pubblico indietro nel tempo, nell’Unione Sovietica degli anni Ottanta. La Perestrojka è alle porte e i giovani, stanchi del regime, cercano di trovare la propria voce attraverso il rock. David Bowie, T-Rex, Blondie, The Doors e tanti altri sono il punto di riferimento per una generazione che vorrebbe esplodere, stanca dell’oppressione e di una politica chiusa al mondo esterno. Chi si atteggia da star con una chitarra in mano non è visto di buon occhio dalle autorità, e rischia il pestaggio o di finire dietro le sbarre. Ma l’arte non si può fermare: è un faro per chi crede in un futuro migliore.     

Serebrennikov si rivela ancora una volta critico verso il suo Paese. Non ha paura di sfidare il conservatorismo della Russia odierna. Oggi è agli arresti domiciliari con l’accusa di truffa, per aver utilizzato fondi governativi nei suoi spettacoli teatrali senza autorizzazione. Sul palcoscenico del Gogol Centre ha sempre portato satire pungenti, e al cinema non ha avuto paura di attaccare la classe dirigente anche da un punto di vista religioso, dando scandalo con The Student. Ma qui siamo lontani dalle ideologie esasperate e dalla condanna del fanatismo.

I protagonisti di Leto sono ragazzi comuni, alla ricerca della propria strada. Sono anime perse, che seguono il loro spirito di ribellione. Con le parole delle canzoni esprimono la difficoltà di farsi accettare, di sentirsi parte di qualcosa. La serenità sembra arrivare solo con i falò sulla spiaggia o nella cabina di registrazione. Il vero tesoro da salvare è la collezione di vinili, che spazia da Bob Dylan a Lou Reed.

Le immagini sono in bianco e nero: il regista guarda alla vitalità di un certo periodo, ai fermenti underground e agli amori ormai passati. Poche volte utilizza il colore, in un film che a tratti sembra la rappresentazione di un sogno, dove anche le persone sul tram possono cantare in coro The Passenger di Iggy Pop. In alcune sequenze, Leto si scopre anche musical, suggerendo che il grigiore della realtà può essere guarito anche solo da un microfono o dai sentimenti. Cambiano i linguaggi, le tecniche, l’estetica assume i toni di una videoclip un po’ vintage. Il bianco e nero resta, ma i passanti si colorano come nel disegno di un bambino. Intanto la vita scorre attraverso le copertine dei grandi classici, da Abbey Road dei Beatles a My Generation degli Who.

L’America e l’Inghilterra sono luoghi lontani, a cui guardare con curiosità e inquietudine: un gruppo di adolescenti a Leningrado non può immaginare che siano culture raggiungibili. Pensano che agli Occidentali non interessi il loro sound. “Credono che siamo ancora fermi a Cechov e Tchaikovsky, ma noi non possiamo aggiungere nulla a mostri sacri come i Velvet”, urla un musicista in erba. Ma la loro storia vive ancora, e nel 2018 calca la Croisette.

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