«Perché il dolore delle donne tunisine non viene compianto? Il silenzio non può placare questo dolore, né fermare la ricerca della verità, né impedire la loro lotta, né vanificarla. Persino una verità drammatica può confortare chi ha visto partire e scomparire il proprio figlio, marito, fratello. Il silenzio è l’unica risposta che non possiamo permetterci. Senza le nostre leggi, le nostre convenzioni internazionali, gli accordi tra i Paesi frontalieri, senza le nostre scelte politiche, quegli uomini, quei ragazzi, non sarebbero mai saliti sui barconi della speranza». (Giusi Nicolini, Sindaco di Lampedusa e Linosa, 20 luglio 2013).
A distanza di un anno dalla visita a Lampedusa, di nuovo un piccolo gruppo di operatori e volontari di CNCA ha toccato un’altra sponda del Mediterraneo, andando nella capitale della terraferma più vicina all’isola siciliana. Ci rivolgiamo a chi, dentro e fuori il sociale, opera perché l’area mediterranea sia presto baricentro che armonizza le differenze, un crocevia di idee, stili e azioni che umanizza il vivere di tutti.
«Tutti noi, partecipanti alle giornate di fine settembre a Tunisi, viviamo la quotidianità in gruppi e organizzazioni che impastano percorsi di persone affaticate e marginalizzate, ricchi di esperienze e sapere collettivo, con proposte di abitazione comunitarie, di lavoro cooperativo, di iniziative di supporto alle ricerche di autonomia di vita e di significati, di azioni coordinate per il cambiamento degli equilibri sociali, economici e politici del nostro Paese. Nessuno tra noi può dire di vivere se non che poco più di un frammento del complesso di situazioni con cui entra in contatto ogni giorno il variegato mondo delle oltre 250 realtà che camminano assieme nel CNCA».
«Nel più piccolo degli organi direttivi collegiali del CNCA, l’esecutivo nazionale, un paio di anni fa abbiamo scelto di trasformare le nostre riunioni in occasioni per ascoltare, vedere e toccare luoghi simbolo delle situazioni che ci stanno interpellando, aprendo la partecipazione a qualche consigliere e/o rappresentante dei gruppi aderenti. Così siamo andati a organizzare i nostri incontri in due strutture di beni confiscati alle mafie prima in Calabria e poi in Lombardia; nel Parlamento Europeo a Bruxelles; in un campo rom della capitale; a Lampedusa e, da ultimo, a fine settembre 2013, appunto, a Tunisi».
«Un metodo di lavoro per le nostre ‘riunioni’ che ci sta insegnando molte cose e ci consente di esprimere vicinanza, approfondimento di questioni, rilancio pubblico di temi per dare consistenza ai diritti e spingere a trasformare mentalità diffuse, azioni inadeguate e leggi inappropriate o ingiuste».
«La realtà tunisina da qualche anno torna spesso nelle riflessioni di CNCA. Per tre tipi di motivi, tre fili sui quali progressivamente si sono infittite le connessioni e che ora troviamo ben intrecciati tra loro:
- il filo delle minoranze: abbiamo posto il tema della nostra cecità come dato di partenza nel leggere l’azione delle minoranze nell’oggi. È quanto il testo Grammatica di minoranze indica nelle sue prime facciate, riprendendo l’avvio della ‘rivoluzione dei gelsomini’ a fine 2010 in Tunisia, la prima delle ‘primavere arabe’ che poi interesseranno gran parte degli Stati del nord Africa, ma anche Yemen, Bahrain, Siria... Solo la consapevolezza della miopia in cui stiamo può aprire spazi inediti, un altro modo di vedere gli eventi e la politica;
- il filo degli sguardi da Sud che, dall’assemblea del 2012 a Napoli (“Dai sud i futuri possibili”), ha posto come baricentro il Mediterraneo e durante la quale siamo stati invitati ad andare in Tunisia. Un’area territoriale e spaziale come il Mediterraneo ci interroga sempre più. Apparteniamo a quest’area e oggi più che mai intravediamo il valore della relazione e dell’incontro con le donne e gli uomini che abitano le altre sponde. Si è reso visibile nel nostro operare l’esigenza di accorciare le distanze tra i tanti mondi che coabitano il Mediterraneo per ascoltarsi reciprocamente e imparare l’uno dall’altro, e vi è la consapevolezza del bisogno di allargare le prospettive includendo i diversi punti di vista. I movimenti della Primavera araba hanno reso visibile quelle fratture presenti nelle popolazioni dovute non solo alle dittature ma anche alle diseguaglianze territoriali e generazionali rispetto al tenore di vita, alle prospettive di futuro, all’accesso al mercato del lavoro e all’opportunità di fruire di diritti, beni e servizi pubblici. Tanti temi ci accomunano e potremmo creare spazi di lavoro comune a partire dai temi quali il sistema di protezione sociale, la costruzione della società civile, le migrazioni e gli asili, i beni comuni. Tanti temi ci accomunano e potremmo creare spazi di lavoro comune a partire dai temi quali il welfare, la costruzione della società civile, le migrazioni e gli asili, i beni comuni.
- il filo dei migranti: è il filo che lo scorso anno ci ha portati a Lampedusa per alcuni giorni e poi a scrivere la Lettera da Lampedusa4, con precise richieste e proposte che abbiamo aggiunto al coro degli inascoltati dalle Istituzioni Nazionali. I migranti dei vari Paesi africani vi approdano, quando ci riescono, spesso partendo dalle coste tunisine o libiche, come quelli della strage del 3 ottobre, avvenuta a pochi giorni dal nostro rientro. “Morto numero 31, maschio, nero, presumibilmente trent’anni. Morto numero 54, femmina, nera, presumibilmente vent’anni. Morto n.11, maschio, nero, presumibilmente di 3 anni: queste parole identificano non solo qualcuna delle 364 vittime del bilancio ancora provvisorio di quel giorno, ma – come litania di corpi spesso trovati nella stiva avvinghiati nell’ultimo abbraccio – recita la vergognosa e colpevole strategia scelta dei governi dell’Italia e dell’Unione Europea nei confronti di rifugiati e uomini e donne alla ricerca di un futuro possibile».
«Prendendo le distanze da ogni ipocrita tentativo di chi ha voluto e costruito ‘queste’ politiche di respingimento e ora si mette dalla parte delle vittime, ribadiamo i punti di vista e richieste espressi nella Lettera da Lampedusa. Inoltre, consapevolmente, inviamo le persone di volontà orientata al bene collettivo alla disobbedienza civile della Legge Bossi-Fini e delle normative connesse. È tempo di riprendere gli spazi di umanità comune violati».
«Nei contatti scelti, abbiamo privilegiato l’incontro con le nuove associazioni, toccando la società civile della capitale svegliata dalla rivoluzione: Tunisi però, ci è stato ripetuto, è sensibilmente diversa dal resto del Paese».
«FTDES è un’organizzazione tunisina nata per agire politicamente sulla situazione delle donne, dell’ambiente, dei migranti e del diritto al lavoro. All’inizio non aveva previsto di farsi carico direttamente delle situazioni personali, ma può accadere, com’è avvenuto questa estate, che qualcuno chiami al telefono dell’associazione per chiedere il numero della guardia costiera italiana. Erano giovani tunisini in mare verso l’Italia, alla ricerca di un riferimento perché dispersi da giorni: nessuno sa se sono arrivati».
«L’impatto con la realtà di questi anni li ha trasformati: nella loro sede i familiari dei dispersi vengono a incontrarsi e a far sentire la loro voce: più volte, e anche quest’anno, hanno manifestato a Roma il loro non arrendersi. La madre di un disperso, durante il recente Social Forum di Tunisi, ha detto alla stampa internazionale: “Siamo madri, padri, sorelle e fratelli nello stesso modo in cui lo si è in Europa. Perché dunque il nostro affetto e il nostro dolore non hanno lo stesso valore degli affetti che, in un caso simile, verrebbero riconosciuti ai familiari di giovani europei?” Di seguito riportiamo un ampio stralcio dell’appello per i migranti tunisini dispersi diffuso via internet:
«Immagini tu?. Prova a immaginare: tuo fratello o tuo figlio parte e non dà più notizie di sé dopo la sua partenza. Non è arrivato? Non lo sai, potrebbe essere stato arrestato nello stato di arrivo che non prevede che si possa arrivare semplicemente partendo e che per questo arresta quelli che arrivano mettendoli nei centri di detenzione o in prigione. Aspetti qualche giorno, guardi immagini alla televisione del luogo in cui potrebbe essere arrivato, per sperare di vederlo. Capisci anche che tuo figlio o tuo fratello non è l’unico a non aver telefonato dopo essere partito. Insieme alle altre famiglie chiedi allora alle autorità del tuo paese di informarsi, di capire se sono tutti in qualche carcere, speri che lo siano anche se temi che non vengano trattati bene. Ma le autorità non fanno nulla, non chiedono e non ti ascoltano, per mesi. Tu nel frattempo fai presidi, manifestazioni, parli con i rappresentanti di alcune associazioni, con i giornalisti, porti la foto di tuo figlio o di tuo fratello ovunque, ti affidi a ogni persona che viene dall’altro paese, le dai le foto, la data di nascita, le impronte digitali. Vuoi sapere. Ma non accade nulla e cominci a immaginare (…). Sono morti? Sono in carcere? Sono…? Per saperlo chiediamo ora alle autorità italiane e tunisine di collaborare. (…) Immagini, tu?».
«Alcune situazioni hanno iniziato da poco a essere prese in carico da due giovani psicologi: c’è una madre che già per due volte si è imbarcata nelle stesse condizioni del figlio per venirlo inutilmente a cercare in Italia… Ci raccontano di come, recentemente un’altra madre dopo mesi insonni e senza risposte, si sia accoltellata più volte al petto nei locali del Ministero degli Esteri tunisino… E lo scorso anno Jannet Rhimi, mamma di Oussam, 19 anni, si è data fuoco a Tunisi per protestare contro il silenzio delle autorità tunisine e italiane, inutilmente interpellate dalle associazioni dei dispersi. A molte famiglie non rimane altro che stordirsi con i telegiornali italiani visibili a Tunisi nella speranza, spesso vana e talvolta ingannatrice, di riconoscere in qualche fotogramma di stranieri in città italiane il volto del figlio o un suo indumento raccolto dai pescatori lampedusani. In ogni caso, qualcosa che dica del figlio vivo o che permetta un lutto fin qui impossibile, mentre la tv italiana frettolosamente passa dalla cronaca al “fantastico gioco a premi” e le autorità italiane non degnano le organizzazioni che scrivono chiedendo un contatto, nemmeno di una risposta via mail».
«Emblema della situazione della disattenzione internazionale è la condizione del Campo profughi di Shousha, finanziato anche dal Governo italiano. Dal maggio 2009 molti degli immigrati intercettati nel mar Mediterraneo dalle navi italiane e respinti in Libia, sono finiti a Shousha, un campo profughi in pieno deserto tunisino. La maggioranza di questi erano richiedenti asilo provenienti da paesi in guerra e per questi respingimenti l`Italia ha subito una condanna dalla Corte europea. Gestito dall`Unhcr, e quasi inaccessibile a stampa e organizzazioni indipendenti, il campo ‘di transito’ ha ospitato in tende migliaia di persone, con condizioni di vita precarie».
«Il 30 giugno 2013 il campo dell’ONU è stato ufficialmente chiuso, smantellando le minime strutture e lasciando nel deserto alcune centinaia profughi (pare siano almeno 250) senza acqua, senza elettricità, senza assistenza medica e senza alcun riconoscimento giuridico del loro stato di rifugiati».«
Il buon sistema di protezione sociale tunisino, avviato fin dagli anni ’60, è entrato in crisi per il cambiamento del modello economico produttivo. “su 600mila imprese tunisine, 520mila sono autonome con lavorazioni informali che non portano risorse per le prestazioni sociali statali” – ci racconta un economista del FTDES – “e la protezione sociale si è indebolita ed è in continuo peggioramento”».
«Anche in Tunisia vi è una legge inadeguata e controproducente sulle dipendenze da sostanze stupefacenti che si sta tentando di modificare. Non si distingue il grado e il tipo di consumo: ogni arrestato positivo ai test – per il 90% in relazione all’uso di cannabis; raramente sono donne –finisce in carcere
per almeno un anno e deve pagare una considerevole multa. Ai minori è riservato un trattamento particolare, con programmi esterni diurni o permanenza, sempre per un anno, in una sorta di centri giovanili di buona qualità. Per quanto ci è stato riferito, a Tunisi operano tre organizzazioni su tossicodipendenza e aids, solo una di queste lavora nelle carceri tunisine10. I test sono volontari, gratuiti, anonimi. Le associazioni si propongono di iniziare a lavorare su reinserimento e prostituzione, presente in forma sia legale sia illegale».
«Tre aspetti possono descrivere la situazione della disabilità in Tunisia. Il primo ne dà la cornice: la Tunisia è stato il primo Paese a recepire la convenzione Onu sui diritti delle persone con handicap e sulla carta tutti i diritti sono riconosciuti. Esiste però una grande discriminazione per la condizione di disabilità mentale rispetto a quella fisica e un grande divario tra il trattamento nelle grandi città e quello nel resto del Paese (zone rurali con maggior povertà, ignoranza della legge…). Infine, il programma di integrazione scolastica del 2003 è fallito per mancanza di supporto e formazione al corpo insegnante».
«In ogni situazione che si incontra come inedita, c’è sempre un sud che non ci si immagina. Così è capitato a noi, nello scoprire l’ingarbugliato e spesso nascosto mondo delle relazioni con i ‘neri’ presenti in Tunisia. Già durante la dittatura, ci dicono, venivano spinti fuori dalla capitale, a sud, verso il deserto. Oggi a preoccupare le organizzazioni più sensibili, sono la condizione dei migranti senza documenti e anche quella – che per decenni ha rappresentato uno dei fiori all’occhiello della moderna Tunisia – degli studenti africani11 a Tunisi».
«Un gran numero di immigrati in Tunisia non ha ricevuto il permesso di soggiorno nel corso dell’anno 2013. Sono avvenuti in più occasioni attacchi e discriminazioni razziste senza che le vittime fossero tutelate dalle forze dell’ordine e senza che potessero denunciare i fatti quando le vittime non avevano un permesso di soggiorno. Il mondo dei “senza documenti” è un mondo senza diritti: vengono compromessi l’accesso al lavoro, all’istruzione, all’alloggio e alla salute. Le leggi sui migranti attuali sono simili a quelle italiane».
«Seppure in maniera alquanto parziale, possiamo raccogliere alcune impressioni e annotazioni sulla situazione complessiva che si vive nella capitale, a due anni e mezzo dal rovesciamento del regime di Ben Ali, il 14 gennaio 2011. Anche da scambi occasionali con gente per strada, al mercato o con un guidatore di taxi viene offerta da tutti l’immagine di un Paese ancora in bilico, tra il filo di delusione per la situazione attuale, la speranza radicata e ancora esuberante, le contraddizioni crescenti rilevate da tutti. Dopo la “rivoluzione dei gelsomini” i tunisini sono più liberi, ma c’è meno ordine nel funzionamento degli organi statali, la povertà emerge con maggior nitidezza e si risente della crisi occidentale. “Come andrà a finire?”, “cosa accadrà oggi nessuno lo sa” sono le frasi che ricorrono».
«Rispetto alla situazione politica, dai dialoghi articolati come dalle valutazioni affrettate inserite in mezzo a conversazioni sulla quotidianità, abbiamo rilevato tre nodi tra loro intrecciati. Le aspettative sulla stesura della nuova Carta costituzionale sono molto alte e, dopo la quarta bozza, i rilievi da parte di varie organizzazioni sono puntuali e per alcuni oggi la nuova costituzione appare inceppata nel tentativo di salvaguardare i difficili equilibri di visioni di società presenti in Tunisia. I principali nodi sono legati alla natura dello Stato, al ruolo che la religione islamica avrà nel nuovo ordinamento e alla (in parte conseguente) formulazione di alcuni diritti e libertà».
«La tensione politica nei giorni in cui siamo stati a Tunisi aveva come unica evidenza un segno inequivocabile e simbolico: il filo spinato sull’avenue Habib Bourguiba – la principale strada al centro di Tunisi – che circondava alcuni edifici presidiati senza tensione da blindati ed esercito. Ogni giorno, nello scorrere continuo di gente per le vie centrali, ricordavano che comunque esiste una conflittualità sotterranea che ad ogni momento potrebbe esplodere in violenza. Alla radice sta il ruolo che intenderebbero assumere le aree, pur minoritarie, più integraliste dell’islam tunisino, i salafiti, che, dopo la rivoluzione del 2011, sono diventate più presenti e radicali: aperture di scuole coraniche, attività culturali con parole d’ordine semplici e dirette, proposte commerciali che veicolano stili di vita, ecc. Gli scontri recenti a fine ottobre e gli assassinii dei mesi scorsi di esponenti di spicco dell’opposizione lo testimoniano: il sei febbraio scorso è stato ucciso, mentre usciva dalla sua abitazione, Chokri Belaid, politico assai famoso della sinistra, e in luglio Mohammed Brahmi, altro leader dell’opposizione».
«In questo difficile contesto sono nate, o operano a viso aperto dal 2011, molte organizzazioni della “società civile”, una delle espressioni più ricorrenti del nostro viaggio a Tunisi. È cresciuta un’opinione pubblica indipendente ed esistono forme coraggiose di giornalismo civico; il movimento delle donne – in contrasto con le crescenti tendenze salafiste – è forte e quello degli studenti si sta rafforzando. Proprio il ruolo della ‘società civile’ potrebbe diventare decisivo nella Tunisia odierna per evitare il rischio di populismi a matrice religiosa e tenere alto il confronto sulla nascente Carta costituzionale. Come la storia insegna, non basta far cadere dittatori, bisogna attrezzarsi per sostenere il protagonismo della società civile emergente, valorizzando il grande fermento di spinte e proposte di cui è portavoce. Questa “società civile” secondo i nostri interlocutori è di fronte a tre sfide:
• superare l’attuale frammentazione tra le varie associazioni promotrici di diritti e democrazia: ognuno organizza un pezzetto della propria speranza, ma non si “vedono reciprocamente”, manca una piattaforma tra associazioni;
• affrontare la questione del rapporto con le molte organizzazioni che sono il prolungamento di partiti, specie islamisti;
• moltiplicare gli scambi con analoghe organizzazioni internazionali che non siano solo di matrice francese: lo sguardo all’Italia e la ripetuta richiesta di confronto e supporto rivolta allo stesso CNCA lo mostrano».
«Fin dall’inizio la rivoluzione si è espressa in poesia. Il suo slogan più celebre, divenuto la parola d’ordine più diffusa in Egitto, Yemen, Libia e Siria, non è che una reincarnazione delle parole del celebre poeta tunisino Abu al Qasim al-Shabbi (1909- 1934): "Se un giorno il popolo volesse la vita il destino non avrebbe che da rispondere". Come ama ripetere il poeta e fondatore della Maison de la Poésie di Tunisi, Mohammed Sgaier Awlad Ahmad: "La rivoluzione è un lavoro poetico". E allora, che la poesia trabocchi».