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martedì 08 ottobre 2024
 
 

Libano e Siria, violenze intrecciate

22/10/2012  Dopo l'attentato di Ashrafieh, che ha causato la morte del capo dell'intelligence Wissam al-Hasan, il Paese rischia di dividersi ancora di più tra filo-siriani e anti-siriani.

Resistere alla tentazione dello scontro e delle divisioni interne. Scongiurare il pericolo che la comunità libanese si lasci coinvolgere in una spirale di violenza. Allontanare l'incubo di una nuova, terribile, guerra civile, come quella che lacerò il Paese mediorientale dal 1975 al 1990. Questa è oggi la grande sfida che si trova ad affrontare il Libano, frastornato dall'attentato che, lo scorso venerdì, ha colpito il quartiere cristiano di Beirut Achrafieh e ucciso, insieme ad altre sette persone, il generale Wissam al-Hasan, sunnita, capo dell'intelligence della polizia, probabile bersaglio dell'autobomba. Al-Hasan, infatti, di recente aveva scoperto cellule di spionaggio e terrorismo siriane, israeliane e salafite e portato all'arresto dell ex ministro Michel Samaha, molto legato al governo di Damasco.  

Subito dopo il funerale del 47enne capo dell'intelligence - seppellito in piazza dei Martiri, accanto all'ex premier Rafik Hariri assassinato nel 2005 - a Beirut, ma anche in altre città del Paese, da Tripoli a Saida, sono esplose violente proteste e manifestazioni per chiedere le dimissioni del premier Najib Mikati, considerato vicino al presidente siriano di Bashar al-Assad. L'ipotesi sulla quale l'opinione pubblica e buona parte del mondo politico si sono concentrati, infatti, è che l'attentato sia stato ordito dal governo di Damasco, come ritorsione nei confronti delle inchieste condotte da al-Hasan e dell'arresto di Samaha.

Da parte di tutta la comunità internazionale, compresi Siria e Iran, è arrivata la ferma condanna dell'attentato. Ma intanto il Libano rischia di finire in un vortice di tensioni, di destabilizzarsi ulteriormente e di dividersi in modo ancora più netto e radicale tra filo-siriani (sciiti soprattutto) e coloro che si oppongono al governo di Damasco e sperano nella caduta di Assad (sunniti in particolare). Per capire i conflitti interni, bisogna infatti ricordare che l'assetto politico libanese poggia su un delicato equilibrio tra le confessioni che compongono il mosaico religioso del Paese: il Parlamento è diviso in parti uguali tra deputati cristiani e musulmani (64 seggi a testa, a loro volta suddivisi tra le varie correnti interne); il presidente della Repubblica (attualmente Michel Suleiman) è cristiano maronita, il premier è musulmano sunnita e il presidente del Parlamento sciita. 

Najib Mikati, uno degli uomini più ricchi del mondo, è stato eletto premier a gennaio del 2011, prendendo il posto di Saad Hariri, figlio di Rafik Hariri, leader della coalizione sunnita (anti-siriana) Movimento Futuro (e anche lui inserito nella lista degli uomini più facoltosi del pianeta). Il governo di unità nazionale formato da Hariri era caduto a causa dell'uscita dei ministri di Hezbollah, il Partito di Dio, movimento sciita vicino alla Siria e all'Iran. Il nuovo governo di Mikati è nato con il sostegno anche di Hezbollah e per questo motivo. Dal canto suo, il movimento di Hariri è passato all'opposizione e denuncia con forza l'attuale premier di essere troppo vicino a Damasco e ad Assad.  
 
Di fatto, però, sulle responsabilità dell'attentato di Achrafieh le forze di sicurezza libanesi si muovono con molta prudenza, tengono un considerazione tutte le possibilità e non escludono nessuna pista: l'ipotesi siriana - come ritorsione contro l'inchiesta condotta da al-Hasan sullo spionaggio filo-siriano - appare infatti come la più semplice e scontata. Forse fin troppo. Da tempo al-Hasan era stato minacciato di morte e la sua famiglia viveva, per motivi di sicurezza, a Parigi. Gli Stati Uniti hanno offerto a Beirut la loro collaborazione per fare luce sull'attentato che rischia di trasformare il Libano in una nuova polveriera del Medio Oriente. Per i siriani che si sono rifugiati nel Paese confinante il momento è molto difficile: stando alle stime dei media, circa 30mila di loro hanno fatto le valigie e si sono affrettati a riattraversare il confine e tornare in Siria, per paura che, a seguito dell'attentato, possano essere presi di mira dalla furia di libanesi che non distinguono tra chi è a favore e chi contro il regime di Assad.



Giulia Cerqueti

Bombe, spari, violenze, grida, morti. Dall'inizio della crisi siriana, ogni giorno c'è un'evoluzione in negativo. C'era appena stato qualche segnale di distensione con la Turchia, ed ecco che venerdì scorso, in Libano, a Beirut, un'autobomba ha ucciso otto persone tra cui il generale Wissam al Hasan. Ieri, Aleppo e Damasco sono esplose: ancora morti, ancora feriti. Così come Beirut, dove una violenta sparatoria è scoppiata al termine dei funerali dello stesso generale al-Hasan. Analizzare avvenimenti così incalzanti non è facile, tuttavia cerchiamo di farlo con il salesiano monsignor Armando Bortolaso, vicario apostolico emerito di Aleppo per i latini della Siria e vescovo di Raphanea. Un'esperienza in Turchia e in Palestina alle spalle, monsignor Bortolaso ha sempre svolto la sua opera ricercando il dialogo tra le comunità cristiane e musulmane. Da una decina d'anni è "pensionato" e vive in Libano.  

«Si potrebbe dire che il Medio Oriente è infestato da piromani, che agiscono per procura. È evidente che "l'incendio" appiccato in Siria sta prendendo proporzioni paurose, e sta sfuggendo di mano a chi l'ha appiccato; il rischio che si estenda ad altri Paesi, primo fra tutti il Libano, è oggi evidente. Molti insistono sull'esistenza di un piano tenebroso che mira a indebolire i Paesi arabi del Medio Oriente, soprattutto quelli militarmente più pericolosi. Ormai non si possono più nascondere le complicazioni internazionali che la guerra civile siriana sta provocando, anzi, si parla di una larvata guerra sotterranea tra i due grandi blocchi di potenze: Stati Uniti e alleati da una parte, Cina e Russia dall'altra. La Siria è divenuta l'epicentro di un terremoto che può causare un finimondo. Siamo sulla falsariga della guerra in Iraq, con qualche variante».

«L'Iraq», continua monsignor Bortolaso, «fu trascinato in una guerra disastrosa con la scusa delle armi chimiche da scovare, ma non dimentichiamo gli importanti interessi economici derivanti da una maggiore possibilità di sfruttare le risorse petrolifere esistenti. L’esito del conflitto lo conosciamo. Quanto alla Siria invece, la si è fatta scivolare verso uno scontro religioso interno in seno all’islam, tra sunniti e sciiti. Stessi gli attori, ma camuffati. Stesse le giustificazioni palesi, anche se più celate. Stesso il fine da perseguire. In fondo è la favola del lupo e dell’agnello che si ripete. Nella guerra d’Iraq si sono superate le 100.000 vittime. Nessuno tra i fautori della guerra ha fatto mea culpa: 100.000 vittime senza nessun colpevole. Nella guerra di Siria non si è ancora arrivati a tanto, ma le previsioni fanno paura».  

Un sacerdote, che preferisce rimanere anonimo, ha detto che i cristiani di Aleppo sono terrorizzati, perché i loro quartieri, dove spesso si nasconde l'opposizione armata, sono continuamente oggetto di bombardamenti. Alcuni preferiscono andarsene, ma si sente parlare anche di cristiani che hanno imbracciato le armi. «Non mi risulta che i cristiani di Siria abbiano preso le armi nel senso proprio della parola», commenta il vescovo. «Essi si trovano purtroppo tra l’incudine e il martello. In qualche quartiere di Aleppo si è verificato il caso che dei cristiani si siano difesi contro bande armate che li mettevano davanti a questo dilemma: o imbracciare le armi contro l’esercito regolare, oppure abbandonare subito le loro case. Casi di legittima difesa, piuttosto sporadici, perché quasi sempre i cristiani preferiscono lasciare tutto pur di salvare la loro vita e quella dei loro cari. Da Homs, la quasi totalità della popolazione cristiana si è spostata in luoghi più sicuri all’interno della Siria, come nel "Wadi En-Nasara" (la cosiddetta “Valle dei cristiani”). Tanti di loro invece si sono rifugiati all'estero, specialmente in Libano, presso parenti o conoscenti».  

La grande sofferenza del popolo siriano non può non far pensare al dopo, al problema della riconciliazione nazionale. A Homs ci sono già alcuni esperimenti di Comitati di riconciliazione (Musalaha) promossi da sacerdoti. «Benvenuti i Comitati di riconciliazione, benvenuto Benedetto XVI. I cristiani del Medio Oriente sentono il Papa vicino e, con lui accanto, rinasce la speranza. Il problema della riconciliazione nazionale costituisce una priorità assoluta. Essa appare oggi un’impresa disperata, ma sarà enormemente facilitata se i cristiani saranno un esempio vivo di perdono, collaborazione, solidarietà e altruismo, in una parola di amore scambievole trinitario, che significa riconoscimento della pluralità, della diversità, della reciprocità. A condizione che non abbandonino il Paese».  

Quanto questa guerra fa male alla Primavera araba? «Se per Primavera araba s’intende un progresso verso la democrazia e la laicità», risponde monsignor Bortolaso, «c’è proprio da ricredersi. C’è chi afferma che non si tratta più di una primavera, ma di un autunno inoltrato, se non addirittura di un crudo inverno. Non si può dire infatti che i nuovi Governi che si sono succeduti siano più avanzati dei precedenti. Anzi, sembra vero il contrario. Basta guardare all’Egitto. Ci sono vaste frange di popolazione che pensano di ripristinare forme di convivenza sociale e politica che si ispirino a quelle degli inizi dell’islam, sognando un ritorno al regime politico del califfato. E i palestinesi di Gaza rimpiangono già il governo di Mubarak, che almeno lasciava loro la possibilità di rifornirsi di cibo attraverso i tunnel di frontiera con l’Egitto».  

E conclude: «La democrazia e la laicità non si esportano: si conquistano dall’interno. Saranno frutto di una rivoluzione copernicana - già iniziata -, che porterà gradualmente i Paesi arabi alla meta sospirata. Ma ci vorrà molto tempo. I giovani arabi di oggi sono assetati di libertà, di democrazia, di laicità. Gli scenari che si susseguono ogni giorno davanti ai loro occhi sono deprimenti, per questo sono in preda al pessimismo e spesso alla disperazione. Fuggire, fuggire lontano dai loro Paesi: se lo potessero, lo farebbero tutti, o quasi. Bisogna cercare di convincerli che il futuro sarà certamente migliore del presente, e che vale  la pena rischiare. Qualcosa di nuovo sta nascendo».



Romina Gobbo

 
 
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