Al Husseini, responsabile delle municipalità di Tiro (foto R. Gobbo).
L’attacco che il 10 dicembre ha colpito il quartiere alawita di Jabal Mohsen a Tripoli, l’ultimo di una lunga serie, ha confermato – se ancora ce ne fosse stato bisogno - la presenza jihadista in Libano, con il marchio di al-Qaeda. Un doppio suicidio in un affollato caffè: un primo uomo si è fatto saltare, il secondo qualche minuto dopo, all’arrivo dei primi soccorsi.
A Tripoli la gente è stanca e sfiduciata; frequenti sono gli scontri a fuoco tra sunniti ed alawiti, e il conflitto siriano ha riempito la città di profughi (l’Onu stima in circa 40mila i siriani presenti nella zona, mentre dati ufficiosi riportano la cifra di 100mila), e non è dato sapere quanti di essi siano miliziani dell’Isis.
E questo avviene mentre la leadership del Paese è latitante. Il 7 gennaio, il parlamento non è riuscito, per la diciassettesima volta a eleggere un presidente, lasciando il ruolo vacante dal 25 maggio 2014, scadenza del mandato di Michel Suleiman. Un’altra votazione era stata prevista per il 28 gennaio, ma è stata rimandata. Intanto, il Parlamento, guidato da Nabih Berry, ha deciso un ulteriore rinvio delle elezioni legislative a giugno 2017, estendendo quindi il proprio mandato per un’intera legislatura quadriennale, dopo un primo rinvio nel giugno del 2013.
Una decisione conseguente alle tensioni tra gli schieramenti politico-confessionali, che risentono – come sempre – di quanto avviene nel vicinato, in particolare, in Siria, data la porosità del confine, ma non solo, visto che la stabilità politica libanese è sempre dipesa da fattori esterni. In questa situazione di limbo, chi sembra guadagnarne è il presidente siriano Bashar al-Assad, visto che nessuno parla più di destituirlo, temendo un dopo ancora peggiore. E lui, sicuro del fatto suo, recentemente, in un’intervista al quotidiano del Kuwait, al-Seyassah, ha dichiarato: “Non ci saranno elezioni presidenziali in Libano fino a quando il dialogo con Damasco non porterà ad individuare un candidato alleato della Siria”. Insomma, dato il pantano in cui è sprofondata la guerra siriana, Assad viene considerato il male minore, baluardo contro il dilagare del terrorismo.
La zona più a rischio è proprio la parte nord del Libano, che confina con la Siria. E’ una zona frontaliera, da dove entrano armi e terroristi. Benvenuti nel distretto sunnita di Arsal (nella valle della Beqaa), circondato da villaggi a maggioranza sciita, recentemente attaccato da al-Nusra e Isis insieme: aggredito l’esercito, assaltata la stazione di polizia, con 19 soldati morti, 16 civili, e 35 soldati catturati. Il Governo è stato costretto a trattare, ma non tutti gli ostaggi sono stati rilasciati.
Data la posizione frontaliera, sin dall’inizio della guerra in Siria, Arsal è diventato il naturale bacino di accoglienza di molti rifugiati siriani. Anche perché da sempre ha un “rapporto privilegiato” con la contigua regione siriana di Qalamun; sentendosi abbandonato dallo Stato libanese a causa della distanza, Arsal ha basato la sua economia sul contrabbando con la Siria. Inoltre, fin dall’inizio della guerra siriana nel 2011, la popolazione di Arsal ha simpatizzato per i ribelli anti-Assad e proprio in questa zona alcune unità di combattenti libanesi si sono organizzate per unirsi alla lotta di liberazione dal regime di Damasco. Ma vi si sono insediate milizie jihadiste, che da lì hanno cominciato a penetrare in Libano, in funzione anti-Hezbollah, dopo che il partito sciita libanese (in realtà, un gruppo di miliziani, costituito da sciiti, cristiani e anche qualche sunnita, ndr) ha scelto di andare in Siria a combattere a favore del presidente, e per la protezione del Libano. Ma la minaccia jihadista, prima al-Nustra, poi Isis, si è fatta sempre più concreta, e sembra imminente – in questa zona - la proclamazione di uno Stato islamico modellato su quello iracheno. Il disegno finale di Isis sarebbe un grande Stato comprendente Iraq, Siria, Libano e Giordania. Chi non è sunnita per Isis deve morire: cristiani, sciiti, drusi, yaziti…
I Vescovi riunitisi il 27 gennaio, presso la sede patriarcale di Bkerkè, per l’incontro mensile, presieduto dal patriarca Bechara Boutros Rai, nel documento di sintesi, hanno ribadito che la paralisi politica sta esponendo il Libano a pericoli gravi, che bisogna interrompere il flusso di armi e denaro indirizzato verso fazioni armate e gruppi terroristici da parte di alleati e sponsor regionali e internazionali, e che i conflitti vanno risolti con “mezzi pacifici” e attraverso “negoziati politici”. Nel testo sottolineano il loro sostegno alle forze armate libanesi, impegnate nelle operazioni contro i johadisti. Le Laf cominciano ad ottenere anche la simpatia della popolazione, riacquistando, così, gradualmente, la loro funzione di garanti della sicurezza dello Stato libanese.
E poi ci sono i campi profughi, lì, dal 1948, dove vivono 400mila persone. Gente che non avrà mai la cittadinanza libanese. Lo ribadisce Al Husseini, carismatica personalità del sud del Paese, responsabile delle municipalità di Tiro, incontrato nel suo ufficio. «Con i palestinesi qui profughi ci sono buoni rapporti, ma con cautela. Non saranno mai cittadini libanesi, nessun governo lo accetterà mai, perché creerebbe uno squilibrio demografico (i palestinesi sono sunniti, ndr). Sarebbe assolutamente inaccettabile, sia per gli sciiti che per i cristiani. Rimarranno profughi, indipendentemente dalla soluzione regionale con Israele. La divisione del potere al 50% è sacra, ecco perché non si farà mai una stima esatta della popolazione».
Dare la cittadinanza ai palestinesi vorrebbe dire in qualche misura riconoscere lo Stato di Israele, ecco perché non si fa, e i palestinesi in diaspora ovunque sono apolidi. E comunque la popolazione libanese non può scordare che se si è trovata la guerra in casa è stato proprio a causa dei combattenti palestinesi dell’Olp, insediatisi a Beirut, fatto che ha determinato, nel 1973, l’invasione da parte di Israele, durata fino al 2000, e poi respinta da Hezbollah, movimento sorto nell’84 in funzione anti-israeliana, con lo scopo di riprendere Gerusalemme per i cristiani palestinesi. Israele si è ritirata, ma è rimasta nella zona delle fattorie di Sheeba (oltre che in altre), che rimane territorio conteso, e da dove sono partiti i razzi mercoledì 28.
Ecco che la tanto conclamata stabilità libanese è, in realtà, sempre sul filo del rasoio, e determina, per esempio, l’attuale blocco politico. Secondo accordi raggiunti dopo il ritiro inglese e francese da Siria e Libano, nel 1946, nel Paese dei cedri il presidente della Repubblica dev’essere un cristiano maronita; il presidente della Camera, un musulmano sciita; il premier dev’essere sunnita. Non solo, nello stesso parlamento devono sedere per metà deputati cristiani, e per l’altra metà, musulmani, a loro volta suddivisi in sunniti e sciiti. Così per le cariche amministrative, come per quelle delle forze di polizia. E’ evidente che non se ne esce facilmente. C’è stato nel parlamento qualche tentativo di abolire la religione, lasciando libera la gente di votare solo secondo la preferenza politica, ma non è andato a buon fine. Insomma, quell’equilibrio, ancorché arcaico e ormai non più specchio dell’attuale società, s’ha da rispettare! Attualmente, la situazione vede la Coalizione sunnita del 14 Marzo (ne fanno parte le Forze Libanesi e i sunniti del partito “Futuro”), guidata da Saad Hariri e in netta contrapposizione con la Siria e il regime di Bashar al Assad, sostenere l’elezione del leader delle “Forze libanesi”, Samir Geagea.
La Coalizione dell’8 Marzo, (Hezbollah assieme alla Corrente Patriottica Libera) blocco sciita che fa capo al leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, schierata invece con il cristiano maronita Michel Aoun. Terzo nome con qualche chance di elezione, ma finora incapace di convogliare su di sé il consenso necessario, è quello del leader socialista druso, Walid Jumblatt. «Bisogna arrivare alla nomina di un presidente che rappresenti tutta la popolazione e che si impegni per il bene di tutti», conclude Al Husseini.