«Usciamo dalla fiction e sediamoci a discutere». Il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, è davanti ai cancelli di ArcelorMittal. A chiedere che venga reintegrato Riccardo Cristello, (il lavoratore dell’acciaieria licenziato in seguito a un post su Facebook che invitava a seguire le puntate di Svegliati amore mio), ma anche che si convochi al più presto il tavolo per l’«Accordo di programma con gli enti locali per la bonifica pubblica, il risanamento ambientale, la riconversione e lo sviluppo del polo siderurgico».
È da tempo che il primo cittadino invoca il dialogo, dopo aver sottoposto alla Regione e al Mise «una serie di studi e di valutazioni della comunità per una transizione ecologica e tecnologica. Vogliamo la chiusura dell’area a caldo, l’installazione di forni elettrici o di un mix di tecnologie, una prospettiva orientata alla sperimentazione a idrogeno o ad altre forme di alimentazione del ciclo che abbattano le emissioni di almeno l’80 o il 90%.
Temiamo invece che si prosegua senza interpellare gli enti locali e la comunità, con accordi segreti tra ArcelorMittal e Invitalia che vanno in tutt’altra direzione». Anche se è stato negato l’accesso agli atti per capire cosa era già stato sottoscritto a dicembre, «pensiamo», dice il sindaco, «che lo Stato entrerà con capitali pubblici senza mutare l’assetto industriale e tecnologico, mantenendo equilibri vecchi di 50 anni e che non danno soluzioni dal punto di vista ambientale e sanitario». Ancora non sapeva, mentre parlava, che proprio nelle stesse ore l’accordo temuto stava diventando realtà, con un capitale statale di 400 milioni di euro (a fronte di un investimento fino a 70 milioni del colosso indiano con sede in Lussemburgo), una gestione condivisa tra i partner e un cambio di nome. L’ennesimo.
La vecchia Italsider, poi Ilva, poi ArcelorMittal diventerà Acciaierie Italiane. Ma con la nuova denominazione a cambiare non sarà il vento. Che è quello che continua a colorare di rosso anche le coperture dei parchi minerari (al momento appena due delle sei previste) che promettevano di fermare le polveri, e a soffiare veleno nei polmoni dei cittadini pugliesi. Era ignaro Lorenzo Zaratta, ignara sua madre Roberta. Il tumore che lo aveva portato alla morte nel 2014 era entrato nel suo cervello, come stabilisce la perizia della dottoressa Antonietta Gatti, attraversando la placenta. Fatali erano stati quei mesi lavorati da segretaria nel quartiere Tamburi, a ridosso degli stabilimenti siderurgici. Avevano provocato una lesione nella quale i periti hanno trovato traccia di ferro, acciaio, zinco, silicio e alluminio. «Non avevamo idea di quello che l’inquinamento avrebbe potuto fare», dice oggi il padre Mauro. La sua lotta per quel bambino morto a cinque anni ha portato a 9 rinvii a giudizio per omicidio colposo. Fra essi anche i fratelli Riva, all’epoca proprietari dello stabilimento.
Il processo “Ambiente svenduto”, ha visto la condanna, in primo grado sia dei fratelli Riva che dell'allora presidente di Regione Nichi Vendola. Ma sul futuro dell'ex Ilva ancora non si alza il sipario. Troppi sono gli interessi perché la salute della città venga messa in secondo piano. Al punto che, nell’accordo siglato ad aprile, di fatto si reinserisce lo scudo penale e si chiede il dissequestro degli impianti prima ancora che il Consiglio di Stato si pronunci definitivamente sullo spegnimento dell’area a caldo chiesta dal sindaco con una ordinanza.
«Tutti i decreti salva Ilva che si sono succeduti negli anni dicono che non c’è la volontà di cambiare», dice ancora Zaratta. Ha lasciato il posto fisso e si è reimpiegato a Firenze da dove aspetta la sentenza per suo figlio pensando «a come sono finiti i processi per la Thyssen, per l’incidente ferroviario di Viareggio. Tra prescrizioni e quant’altro», dice amareggiato, «sono rimasti tutti impuniti. E anche per Taranto temo che chi ha sbagliato non pagherà. Io, però, continuerò a lottare. Nessuno può toglierci i sogni». E oggi che la sentenza di primo grado e arrivata, la lotta è perché diventi definitiva.
Quello di Lorenzo non è un caso isolato. Secondo i dati pubblicati a gennaio di quest’anno da Arpa Puglia, Aress (Agenzia regionale per la salute e il sociale), Asl di Taranto, sono stati registrati in città «eccessi rispetto al dato regionale di mortalità e ospedalizzazione per alcune patologie oncologiche (tumore della pleura, del polmone, del pancreas; del fegato nelle donne; dello stomaco, della vescica negli uomini), per le patologie cardiovascolari e per le malattie dell’apparato digerente».
Non è una sorpresa «vista», spiega la pediatra Annamaria Moschetti, presidente della Commissione ambiente dell’Ordine dei medici di Taranto, «la gravità dell’esposizione della popolazione a un ambiente in cui viene immesso un enorme volume di inquinanti». Parla del piombo, per esempio, che «nei bambini produce danni neurologici anche in dosi minime», ricorda gli undici che giocavano a pallone nel campetto dell’ex Ilva e che oggi sono tutti morti per cancro, ed evidenzia come «le patologie risultano in calo in concomitanza con i cali di produzione e dunque di fumi».
Problemi rilevati, fin dal 1965, da Alessandro Leccese, ufficiale sanitario a Taranto, che fece, contestato, una coraggiosa ordinanza contro l’inquinamento del centro siderurgico. E oggi, nei processi tuttora in corso, i periti della procura di Taranto tornano a scrivere che «l’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e morte».
Colpa della vicinanza alla città di quel «cambio del layout dell’azienda che fece costruire l’impianto a caldo, più inquinante, a ridosso del quartiere Tamburi per risparmiare una decina di chilometri di nastri trasportatori per il trasferimento delle materie prime dal porto ai forni», ricorda l’ingegner Biagio De Marzo, ex dirigente dell’Italsider.
«E poi, l’altro errore fu nel concedere all’Ilva l’autorizzazione integrata ambientale che non offriva alcuna garanzia per l’abbattimento dell’inquinamento e di cui ancora chiediamo la revisione. Senza contare che questo stabilimento potrebbe essere riconvertito completamente in elettrico in una decina d’anni, sul modello di quanto già accade con il gruppo Arvedi a Cremona e con quello Pittini a Verona».
Intanto la città, sospesa tra chiusura e produzione, ha perso la speranza. «La comunità non viene coinvolta da queste scelte che pure hanno le loro ricadute sul territorio», aggiunge il francescano fra Francesco Zecca, coordinatore nazionale della Commissione Giustizia pace integrità del creato, dei Frati minori. «Un tempo i giovani aspiravano a lavorare nel siderurgico, oggi aspirano ad andarsene da Taranto. Non sentono questa come la loro casa. Dobbiamo ridare prospettive e futuro. Non siamo contrari all’industria, ma bisogna sviluppare quelle che danno un valore aggiunto alla città». Ma l’ex Ilva va avanti senza scomporsi e senza interrogarsi. Neppure dopo i due incidenti in meno di un mese, dopo i dati sulle morti e le malattie, dopo le proteste per il reintegro di Cristello. «Lavoro qui da 25 anni, sono entrato da operaio e poi sono cresciuto», racconta senza farsi una ragione di un provvedimento tanto duro. Lui non lo dice, ma forse il tentativo era di colpirne uno per far tacere tutti. Perché sono forti i poteri che si muovono dietro all’acciaio. Lo ha raccontato bene Svegliati amore mio. E la realtà, a guardarla da dentro, è più terribile della fiction.