In Libia è in corso un giro di vite nei confronti degli immigrati subsahariani che entrano illegalmente nel Paese. Secondo l’Agenzia libica Lana, il Governo vorrebbe a breve rimpatriare in Ciad, Niger, Eritrea, Ghana, Sudan e Nigeria, 271 migranti, attualmente detenuti, promuovendo accordi con le nazioni d’origine.
Commenta don Mussie Zerai, sacerdote cattolico eritreo che dalla Svizzera con la sua associazione Habeshia è in contatto con i profughi del Corno d’Africa: «Finora non era avvenuto, sarebbe una novità. Invece, è frequente la pratica dell’espulsione forzata: ai confini con il Ciad e il Niger, lungo una frontiera tracciata solo sulle mappe, chi non può pagare la tangente alle guardie nelle carceri libiche, finisce abbandonato in ciabatte nel deserto, senz’acqua, né cibo». Il mese scorso, alcuni migranti che avevano subito questa sorte, sono stati salvati da una carovana di passaggio e hanno raccontato di cadaveri in mezzo alla sabbia.
Nei casi in cui i migranti sarebbero esposti a conseguenze serie, i rimpatri annunciati dal Governo libico violerebbero le leggi internazionali, ma la Libia – sì, anche la “nuova” Libia del dopo Ghedaffi – non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sul diritto d’asilo.
Per gli eritrei, il rischio è altissimo: dal 1993, anno di indipendenza dall’Etiopia dopo una pluridecennale guerra di liberazione, è governata da Isaias Afewerki, che ha instaurato una delle dittature più dure del mondo; non ha mai svolto elezioni, non ha una Costituzione e nega le libertà fondamentali. Il dittatore ha militarizzato il Paese: non ci sono più giornali né radio libere, rischia l’arresto chiunque parli male del governo o senta radio o tv straniere.
Racconta Agazit, 29 anni, scappata insieme al figlio piccolo: «Anche in famiglia chiedono ai bambini di spiare i genitori e di raccontare quel che si dice e si fa, chi si incontra». Lei avrebbe voluto andare all’università, ma ne è rimasta una sola del governo, frequentata dai figli degli uomini di Afewerki, che alternano gli esercizi militari allo studio.
Al confine con l’Etiopia, è in vigore la prassi per cui i soldati possono «sparare per uccidere» coloro che tentano di espatriare, ma la corruzione alimenta il business gestito da trafficanti e militari. In questo modo, 4 mila persone lasciano illegalmente l’Eritrea ogni mese. Ufficialmente è vietato per chi ha meno di 50 anni, ma in realtà emigrano soprattutto giovani che vogliono evitare il servizio militare. Come spiega Amnesty International in un recente rapporto, «l’arruolamento è rimasto obbligatorio e spesso esteso a tempo indeterminato». È schiavitù legalizzata: le reclute sono anche costrette a svolgere lavori forzati, spesso come minatori.
La ministra della Difesa Roberta Pinotti all'incontro con Al Thinni, nel marzo scorso. In copertina: prigionieri eritrei in una prigione libica. Uno di loro viene soccorso perché si sente male per il caldo soffocante. La foto è stata scattata con un cellulare da uno dei detenuti.
Ma l'Italia, intanto, addestra i militari libici...
Se gli eritrei ora in Libia fossero rimpatriati, rischierebbero la vita: chi non ha svolto il servizio militare, in patria sarebbe punito con la tortura e anni di carcere duro, mentre chi era arruolato e ha disertato, andrebbe incontro alla pena di morte. Spiega don Mussie: «I soldati libici lo sanno e utilizzano questa minaccia per estorcere denaro ai detenuti. Nelle carceri, i migranti subsahariani continuano a subire vessazioni, stupri e violenze. Mi hanno chiamato al cellulare anche la scorsa settimana chiedendo aiuto; alcuni sono reclusi da oltre otto mesi, non vengono liberati finché non trovano i soldi per corrompere le guardie. È un vero e proprio business».
I migranti arrivano sia dall’Africa occidentale, spesso con l’idea di fermarsi a lavorare in Libia, dove c’è richiesta di manodopera, sia dall’Africa orientale, soprattutto profughi eritrei, somali, etiopi e sudanesi; per quest’ultimi, il progetto migratorio prevede invece di andare in Europa, Canada e Stati Uniti per richiedere la protezione umanitaria.
L’accanimento di queste settimane verso la pelle nera, oltre che negli annunci di rimpatri, si vede nell’aumento delle retate casa per casa, a Tripoli e nelle altre città, alla ricerca di immigrati illegali da arrestare. Non è un caso che avvenga proprio in un momento di grave crisi politica: a metà aprile, si è dimesso il premier Al-Thinni, che era subentrato a marzo ad Ali Zeidan, che, sfiduciato dal Parlamento, se ne era andato dichiarando il fallimento del processo costituente. Aggiunge don Mussie: «Da mesi, il Governo non ha il controllo di varie zone del Paese e i migranti rimangono in balia delle milizie armate locali, che sfruttano l’occasione per guadagnarci».
L’Unhcr prova a monitorare le loro condizioni, ma, non aderendo la Libia alla Convenzione di Ginevra, agisce in modo informale, senza uno status chiaro.
Nel frattempo, l’Italia continua a collaborare con le forze militari libiche in base agli accordi bilaterali del 28 novembre scorso, relativi anche «al controllo delle frontiere, al fine di fronteggiare e ridurre l’emergenza immigrazione». «In tale ambito», scrive il sito del Ministero della Difesa italiano, «è stata confermata la disponibilità alla cooperazione nel campo dei sistemi aerei a pilotaggio remoto e nelle attività di Search and Rescue (Sar)».
Ai confini meridionali libici, per il monitoraggio elettronico aereo, saranno utilizzati radar e sensori della Selex, società di Finmeccanica. Un contratto firmato tempo fa con Ghedaffi, ma poi bloccato dalla guerra civile. Prosegue inoltre la formazione del personale libico da parte dei militari italiani, sia nella base navale di Tripoli che a Cassino. L’obiettivo è «migliorare la sicurezza comune» e «organizzare, condurre e coordinare le attività addestrative, di assistenza e consulenza a favore del governo libico».
Il 6 marzo a Roma, il ministro Roberta Pinotti aveva incontrato Al-Thinni, all’epoca ministro della Difesa, ribadendo l’impegno italiano a «fornire il proprio contributo al necessario processo di transizione democratica». Ecco, garantire i diritti degli eritrei e degli altri migranti subsahariani, magari aderendo alla Convenzione di Ginevra e smettendo di abbandonare nel deserto del Sud chi non può corrompere i militari, potrebbe essere un ottimo inizio…