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Libia, voci dall'inferno

26/05/2018  Le drammatiche testimonianze dei profughi sopravvissuti ai campi di raccolta. Pestaggi, violenze, torture, stupri, esecuzioni di uomini donne e bambini. Per questo la notizia che sono diminuiti gli sbarchi non può essere letta come un segnale positivo.

“Voi che vivete sicuri
 nelle vostre tiepide case/ 
voi che trovate tornando a sera/ 
il cibo caldo e visi amici/ 
considerate se questo è un uomo/che lavora nel fango/che non conosce pace
/che lotta per mezzo pane/
 che muore per un si o per un no”. Vengono in mente i versi di Primo Levi in "Se questo è un uomo" ad ascoltare per lunghe ore i profughi approdati in Italia dopo aver vissuto nell’inferno libico. “Eravamo sporchi e affamati. Ci davano un pezzo di pane ogni tre, quattro giorni. E l'acqua da bere era sporca. Dovevamo fare i lavori forzati, incatenati alle caviglie, prigionieri due a due. Se uno cadeva, l'altro lo doveva rialzare velocemente. Dovevamo spostare delle pietre con le nostre mani. Quando eravamo sfiniti e non riuscivamo più a lavorare, ci picchiavano e ci bastonavano.” racconta un ragazzo della Sierra Leone, sopravvissuto al campo di concentramento di Zawiya. “Ci obbligavano a spogliarci e sceglievano qualcuno tra noi per essere massacrato davanti agli occhi di tutti gli altri. Uomini e donne, nudi e flagellati. Tutti dovevano guardare quell'orrore senza far rumore, senza coprire gli occhi. I bambini erano i più terrorizzati, piangevano e allora le guardie li picchiavano e ordinavano allle madri di tenerli zitti, o li avrebbero ammazzati”. E' la testimonianza di un sopravvissuto ai campi di concentramento di Sabratha. “Di giorno ci picchiavano e di notte ci violentavano. Disponevano dei nostri corpi come se non fossimo più persone. Molte ragazze rimanevano incinte dalle guardie. I loro figli nascevano da prigionieri insieme alle madri in quel campo. A volte per fare posto a un nuovo carico umano eliminavano donne e bambini e dovevamo liberarci dei loro corpi. I nostri carcerieri uccidevano i propri figli, nati dalla loro violenza su di noi. Era un inferno”, ci racconta una giovane, anche lei sopravvissuta ai campi di concentramento in Libia.

C’è poco da rallegrarsi e sentirsi sicuri per il blocco del Mediterraneo, messo in atto a seguito del cosiddetto Memorandum Italia- Libia. Le notizie del forte calo degli arrivi di profughi sulle nostre coste ci dovrebbe interrogare su quali sia il prezzo in termini di vite umane che queste persone stanno pagando per la nostra apparente tranquillità. Le tragedie che si compiono in Libia ogni giorno resteranno indelebili nella storia del nostro tempo. Storie di migliaia di esseri umani rinchiusi nei campi di concentramento libici in qualche maniera finanziati dall'Occidente e più precisamente dall'Italia, vicina di casa. Il “Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica italiana”, firmato a Roma il 2 febbraio 2017 dall'allora Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica italiana, Paolo Gentiloni, e dal Presidente del Consiglio Presidenziale del Governo di Riconciliazione Nazionale dello Stato di Libia, Fayez Mustafa Serraj, è stato concordato tra i due Paesi con l'obiettivo di fermare il percorso migratorio nel Mediterraneo. Quello che l'Italia sta finanziando in terra Africana è in realtà il trattenimento di migliaia di esseri umani nei campi di concentramento e di sterminio libici. Presto potrebbero esserci altri lager anche in Niger, sempre nel tentativo di impedire a uomini, donne e bambini, di scappare da situazioni drammatiche, da contesti di guerra, da una miseria che uccide più di ogni guerra mai esistita. 

L'impossibilità delle Ong che ancora operano nel Mediterraneo di prestare soccorso a queste persone come anche l'obbligo delle stesse di consegnare i profughi alla guardia costiera libica si ripercuote nei confronti dei profughi che rischiano di essere riportati negli stessi campi di concentramento da cui erano riusciti a scappare per essere sottoposti alle stesse condizioni di segregazione e di torture di prima.  Dai racconti che abbiamo raccolto dei profughi che riescono a fuggire da questi luoghi di persecuzione, riceviamo informazioni a dir poco raccapriccianti di quanto accade ancora oggi. “Eravamo rinchiusi in un luogo governativo, sudicio, sovraffollato di uomini, donne e bambini.Ogni giorno venivamo stuprate dai nostri carcerieri e costrette anche a lavorare per loro. Quando arrivava un nuovo carico di donne e bambini, per poter fare posto ai nuovi reclusi, sceglievano tra noi i più deboli, oppure le donne incinte o con bambini piccoli. A volte sparavano, altre volte li prendevano a calci e bastonate e finivano per ucciderli colpendoli con violenza e ripetutamente in testa con i calcio dei fucili. Eravamo obbligate a ripulire per terra il sangue delle vittime e poi, insieme alle guardie, sbarazzarci di quei corpi privi di vita o ancora agonizzanti, gettandoli in mezzo al deserto o nelle campagne circostanti.” Così ci racconta una richiedente asilo etiope. Mentre parla, ha lo sguardo assente, quasi come un corpo ormai privo di anima. Ed è grazie a lei che riusciamo a sapere delle vittime innocenti di un campo libico. La giovane ci racconta poi in lacrime di quando hanno supplicato le guardie di non portar via i due bambini della donna che avevano appena ucciso, chiedendo loro di risparmiare almeno i piccoli, dei quali le recluse si sarebbero occupate al posto della ragazza assassinata. Non c’era stata nessuna pietà da parte dei carcerieri e i piccoli erano stati portati via e mai più tornati. “Di loro non so che cosa ne hanno fatto", continua. "Erano molto piccoli, piangevano. Erano spaventati e si attaccavano a me per non essere presi dalle guardie, ma non li ho potuti salvare….”. La giovane continua a denunciare le atrocità dei lager libici, interrotta da pianti disperati tra un racconto e l'altro. Vuole liberarsi di quelli orrori. Vuole che si sappia cosa accade in Libia perché lei è riuscita a sopravvivere a tutto questo e si sente in dovere di raccontarci, “perché nessuno debba più subire queste atrocità”.

Quasi tutti i richiedenti asilo che giungono in Italia hanno evidenti segni di tortura fisica. E se per alcuni le torture avvengono già nel stesso paese di provenienza, per molti altri queste vengono loro inflitte in Libia. Ma ci sono anche altre forme di tortura che non lasciano segni sul corpo, anche se sono ugualmente terribili, quanto quelle fisiche. Come ad esempio quella a cui è stato sottoposto un ragazzino dell’Africa sub Sahariana che, fuggito dalla Somalia con la sorella più giovane, era stato costretto dalle guardie libiche a violentarla davanti ai loro sguardi, sotto minaccia di morte per entrambi se non lo avesse fatto. Lui racconta che, pensando di proteggere la sorella dalle violenze sessuali che avvengono quotidianamente all’interno del lager libici, aveva detto loro, ingenuamente, che si trattava di sua moglie, che erano sposati e che lei aspettava il loro bambino. Non l’avrebbe comunque salvato dalle violenze, ma questo lui non poteva immaginarlo. In più, questa informazione palesemente falsa, per la somiglianza evidente dei loro volti, ha procurato ad entrambi una peggior pena, un male ancora maggiore. Consumata poi la violenza di gruppo sulla ragazzina, l’avevano uccisa davanti a lui. E pensare che il lager Libico, in un certo senso, è una nostra invenzione. Trattenere ad ogni costo i profughi in Libia, Niger, Marocco, nel Sinai, sono strategie finanziate dalla stessa Europa che, il 28 Aprile del 1951 scriveva la Convenzione di Ginevra per assicurare il diritto di asilo e metteva in evidenza i crimini contro l’umanità, dopo lo sterminio di oltre sei milioni di ebrei nei campi di concentramento dei nazisti, diventato poi campo di sterminio. Si fa fatica a pensare che lo stesso continente che ha scritto questa Convenzione per assicurare la tutela dei richiedenti asilo, ratificata da circa 150 Stati nel mondo, faccia poi gli accordi con La Libia (uno dei pochi Stati che non ha ratificato la Convenzione) al solo fine di impedire l’ accesso dei profughi in Europa. Sul memorandum Italia-Libia è stato presentato un ricorso alla Consulta da alcuni parlamentari italiani contro l'ex Governo Renzi-Minniti il quale, non chiedendo la ratifica dell’ accordo in Parlamento, ha impedito loro di esercitare il diritto di discuterne e di votare, come stabilito dalla Costituzione. La nostra Carta richiede infatti, all’art. 80, che le Camere autorizzino con legge “ la ratifica dei trattati internazionale che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi”. Finiscono le parole laddove l’orrore diventa ancora più brutale, al punto che non si riesce più a descriverlo. Ma questi individui, sopravvissuti ai lager dei nostri tempi, con il loro corpi, costituiscono un documento storico al cui giudizio non ci potremmo sottrarre, inevitabilmente. Anche quelli senza nome, senza una possibilità più di raccontare la propria esistenza, raccolti in mare come seme sparpagliato e senza più possibilità di germogliare. O quelli la cui voce non potremmo mai ascoltare, se non nel racconto dei sopravvissuti.

L’ammonimento alle generazioni del dopo guerra che fu di Primo Levi, sopravvissuto ai lager, oggi sembra essere caduto nel vuoto. Nel nostro vuoto di umanità.

 

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