Direttore scientifico dell’Istituto
clinico Humanitas e
docente di Humanitas University,
immunologo riconosciuto
in tutto il mondo
come uno dei migliori. E allora
perché Alberto Mantovani ha sentito
l’esigenza di scrivere un libro per il
grande pubblico? Il volume, Immunità e vaccini (Mondadori), dal titolo sembrerebbe
un tomo per addetti ai lavori.
E invece il professor Mantovani pensa
che si debba sapere come comportarsi
di fronte all’ipotesi di un vaccino.
«L’ho scritto con due motivazioni,
la condivisione e l’allarme. La prima
deriva dal mio lavoro, dalla passione
per la ricerca scientifica e per l’immunologia.
La seconda deriva dalla realtà
odierna. Ci sono motivi d’allarme, in
particolare in Italia, per un pensiero che si è fatto strada, e cioè
che vaccinarsi sia inutile o addirittura
pericoloso. Sono preoccupato per il
prezzo che sarà pagato dai più deboli».
Chi sono i più deboli?
«Quelli che non vediamo. I 1.500
bambini che ogni anno si ammalano di
cancro e non possono essere vaccinati.
O quelli con gravi immunodeficienze
o, ancora, i trapiantati. Un mio collega,
Alberto Villani, del Bambin Gesù di
Roma, ha stimato in un milione circa i
bambini con gravi problemi».
Mantovani snocciola altri numeri:
«Ho avuto il privilegio di servire
un’iniziativa di salute globale; si
chiama Gavi, alleanza nata per fornire
vaccinazioni salvavita ai bambini
dei Paesi in via di sviluppo. È un
organismo che cerca d’affrontare lo
scandalo della morte annuale di 10
milioni di bambini. Due milioni di
loro non morirebbero, se vaccinati. E
devo dire che l’Italia in questo caso è
stata brava. Il nostro Paese è un grande
sviluppatore e produttore di vaccini:
esportiamo circa 600 milioni di
euro di vaccini importandone circa
100. Dobbiamo essere orgogliosi dei
5 miliardi di persone vaccinate con il
vaccino antipolio prodotto nel nostro
Paese. E la testa economica di Gavi è
stata italiana. Così come l’idea di un
prestito obbligazionario, e il primo
ad aderire sa chi è stato? Giovanni
Paolo II. Ma intanto la poliomielite è
ricomparsa in Siria, con focolai in Nigeria,
Afghanistan, Pakistan. Tuttavia,
il mondo sta meglio. In vent’anni si è
passati da 800 mila a 100 mila morti
di morbillo e il lavoro di Gavi ha prevenuto
la morte di circa 7 milioni di
persone. Però, per quanto riguarda il
morbillo, in Italia siamo scesi sotto la
copertura del 90 per cento. E l’Oms ha
alzato un cartellino giallo per il nostro
Paese».
Perché è importante vaccinarsi?
«Le farò un esempio. Collaboro
con il professor Andrea Biondi di
Monza. Lo scorso anno, lì, era ricoverato
un bambino di 18 mesi. Leucemia.
Nonostante avesse il 90 per cento
di probabilità di guarire, è morto. E sa
di cosa? Di morbillo. Non poteva essere
vaccinato e probabilmente intorno
a lui c’erano persone non vaccinate».
La malattia sembrava debellata…
«È un problema da non sottovalutare.
La tendenza a rifiutare i vaccini è
evidente, soprattutto nella fascia medio-alta della popolazione. Le ragioni
sono quattro. La prima è la più contraddittoria.
I vaccini sono vittime del loro
stesso successo. La nostra generazione
è l’ultima ad aver visto davvero casi di
poliomielite. Oggi in Italia non c’è più
grazie ai vaccini. Come la difterite. C’è
chi crede che le malattie scompaiano
da sole. Non è così. Quelle malattie non
ci sono più perché ci siamo vaccinati».
E gli altri motivi?
«Uno è Internet. Nella Rete si diffondono
bugie che assumono il carattere
di verità, come quella secondo
cui il vaccino contro il morbillo causi
l’encefalite e l’autismo. Un terzo motivo
sta nella diffusione dell’idea per cui
il nostro organismo si fortifica se ci si
ammala ogni tanto. È vero il contrario,
invece: il miglior allenamento per il
nostro organismo è proprio il vaccino».
Ma è sul quarto motivo che il professor
Mantovani mette l’accento:
«Non c’è, o si è persa, la percezione del
senso di comunità, di solidarietà. E
quando manca questa percezione, per
esempio non vaccinandosi, si rischia
di fare del male anche agli altri».
Come si può aiutare il sistema immunitario?
«Con una regoletta semplice, di tre
cifre: 0, 5, 30. Zero fumo. Cinque volte
al giorno un pasto di frutta e verdura.
E trenta minuti quotidiani di esercizio
fisico moderato».