La regista in una foto degli anni '80
La porta si apre, ma l’ingresso della casa romana di Lina Wertmüller è immerso nel buio più totale. Si intravedono solo due figure adagiate su un divano. Dopo esserci ripresi dallo spavento, guardiamo meglio: sono solo due manichini. Di colpo il silenzio è rotto da una voce: «Sono di sopra!». Saliamo le scale, sempre al buio, e finalmente appare lei, vestita solo con un accappatoio bianco e con un sorriso bellissimo e birichino che non la abbandona mai.
Raccontiamo quanto ci è appena successo e lei ci fulmina: «Non sono manichini, sono opere d’arte!». È solo la prima di una sfilza di figuracce che macchieranno la nostra chiacchierata. La seconda arriva pochi secondi dopo, quando le chiediamo cosa spinge una persona anziana come lei, che ad agosto compirà 85 anni, a debuttare a teatro come attrice: «Anziana è una parola che mi fa ribrezzo. Io sono vecchia». Comunque, lo spettacolo si intitola Un’allegra fin de siècle, è scritto e diretto da lei e debutterà a Rende, in provincia di Cosenza, il 10 maggio. Per l’occasione, ha composto anche delle canzoni che saranno interpretate da Nicoletta Della Corte.
La cantante le sta accanto pure oggi e le suggerisce di non fare l’intervista sul terrazzo perché il tempo minaccia pioggia. Ovviamente “la scugnizza”, come ama definirsi, non ci sta. «Ah sì? Allora andiamo fuori. E, tornando allo spettacolo, non mi peserà: sarà come una chiacchierata al caffè con gli amici. Ma lei ha figli?». Sì, uno. «Anch’io ho una figlia, Maria Zulima. Ha vent’anni e abita qui vicino. Vuole fare la skipper, quindi dovrò rassegnarmi a rigirarmi nel letto la notte pensando che mia figlia sta chissà dove in mezzo all’Oceano Atlantico».
Ci pensa Nicoletta a mettere un po’ d’ordine nella conversazione. «Nello spettacolo Lina racconta la storia del ’900, soffermandosi in particolare sui dittatori che lo hanno funestato, ma con la leggerezza e l’ironia che la contraddistinguono». «Ho conosciuto Mussolini », interviene lei. «Da bambina andavo a cavallo e un giorno all’ippodromo venne “Benitone”. Qualcuno mi chiese se volevo dare uno zuccherino al cavallo del Duce e io, che sono sempre stata sfrontata, l’ho fatto. Ho trascorso un’infanzia felice insieme a mio fratello maggiore Enrico. Eravamo due pesti, solo che lui aveva la faccia d’angelo e si salvava sempre. Io, invece, sono stata cacciata da 11 scuole. Ma lei non ha letto la mia autobiografia Tutto a posto e niente in ordine?».
Veramente no. «Ha un vuoto culturale imperdonabile: deve promettermi che lo farà». D’accordo, andiamo avanti. «In una di queste scuole ho incontrato la futura moglie di Marcello Mastroianni, Flora. Diventammo molto amiche, finché lei decise di iscriversi all’Accademia d’arte drammatica. Mi si accese una lampadina e decisi di provarci anch’io».
La giovane Lina non ci mette molto a farsi strada: fa l’assistente di Federico Fellini in La dolce vita e 8½ e nel 1963 debutta alla regia con I basilischi, un film girato con stile neorealista che le vale molti premi. Subito dopo, però, spiazza tutti e dirige per la Tv Il giornalino di Gian Burrasca con Rita Pavone. «Non mi andava che i critici mi mettessero nello scaffale “regista di film impegnati”: che noia. Molto meglio lavorare sul libro preferito da mia madre che ho divorato anch’io, perché Gian Burrasca era un discolo come me». Per lo sceneggiato ha pure scritto, su una musica di Nino Rota, il testo della sigla che ancora oggi milioni di bambini cantano: Viva la pappa col pomodoro. «Ho messo lo zampino pure nella musica», rivela. «Gli dissi: “Ninetto, ti ricordi Je cherche après Titine, la canzone che Charlot canta in Tempi moderni? Potresti partire da lì”: e così fu».
Con gli anni ’70 arrivano i film dai titoli chilometrici come Mimì metallurgico ferito nell’onore o Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, che regalano alla regista fama mondiale. L’eccezione è Pasqualino Settebellezze, con cui nel 1977 conquista quattro nomination all’Oscar, compresa quella per la miglior regia, prima donna nella storia del cinema. Alla cerimonia a Los Angeles, però, decise di non andare.
«Non è vero. Ci andai. Solo che non avevo voglia di sedermi in prima fila nel posto che mi avevano riservato. Chiesi alla moglie del critico Tullio Kezich, Lalla, di sostituirmi e mi spostai qualche fila più in là accanto al protagonista del film, Giancarlo Giannini. Passammo la serata a ridere come pazzi, mentre tutto il mondo pensava che io fossi Lalla Kezich».
Fu lei a inventare la coppia Giancarlo Giannini-Mariangela Melato. Solo quando parla della grande attrice milanese da poco scomparsa, il sorriso della regista si spegne. «Quando è morta, sono andata a salutarla per l’ultima volta e l’ho trovata di una bellezza assoluta. Il suo viso aveva un candore che porterò sempre con me».
Così come porterà sempre con sé l’amore per suo marito, lo scenografo Enrico Job, scomparso nel 2008. Da allora, la regista si fa chiamare Lina Job Wertmüller. «Siamo stati sposati per 44 anni. Era un artista molto più bravo di me. Eravamo diversissimi, ma stavamo bene insieme. E poi era bellissimo. Sono stata molto fortunata a vivere con un uomo come lui». D’improvviso, compare Maria Zulima. Le chiediamo se vuole fare uno scatto con la madre adottiva. Lei esita un po’, ma alla fine accetta. «E adesso, però, fuori di qui. Jatevenne», sbotta la regista. Mentre usciamo, si sente la sua voce che canta in napoletano: «Jatevenne, jatevenne. Lo spettacolo è fernuto».