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giovedì 14 novembre 2024
 
 

Macbeth e Simon Boccanegra, il nostro giudizio

21/10/2013  Il primo spettacolo, in scena a Novara con la regia di Dario Argento, si raccomanda per la parte musicale. Il secondo, a Torino, conferma le qualità di Gianandrea Noseda.

Siamo alla vigilia del centenario della Grande Guerra. Che ci sia un rinnovato interesse per questa svolta epocale è dato per scontato. Che però questo anniversario coinvolgesse anche il teatro lirico era difficile supporlo. Invece è accaduto al Teatro Coccia di Novara, dove è andato in scena Macbeth di Verdi, che la regia di Dario Argento ambienta durante il primo conflitto mondiale: la guerra più atroce e sanguinaria per una tragedia altrettanto feroce e cruenta.

Sulla scena si vedono una trincea con filo spinato, cadaveri di soldati, un cavallo morto, fra i quali si aggirano le streghe (il coro femminile e tre ballerine nude), Macbeth e Banco. La firma di Argento si avverte in un paio di momenti particolarmente intensi: l’assassinio del re Duncan consumato dietro il vetro di una finestra illuminata e striata di sangue (autocitazione da Profondo rosso), e la morte di Macbeth, trafitto da pugnalate e decapitato (con Macduff che brandisce la testa come un trofeo e poi la getta per terra).

Questo Macbeth novarese si raccomanda quindi essenzialmente per la parte musicale, più che decorosa dati i tempi grami che attraversa la provincia italiana (e non solo), grazie alle scelte della nuova gestione (la direttrice artistica Renata Rapetti, forte di un’esperienza acquisita nel campo della prosa, assistita da Renato Bonajuto). Felice si è rivelata la bacchetta di Giuseppe Sabbatini, che dal palcoscenico, frequentato con onore per una ventina d’anni, è da poco tempo passato sul podio direttoriale, portandovi un’esperienza di conoscitore dell’orchestra qui valorizzata con efficacia di gesti e di stacco dei tempi. Buona la prova del coro Schola Cantorum San Gregorio Magno istruito da Mauro Rolfi.

L’espertissima Dimitra Theodossiou si è destreggiata con consumata abilità fra gli ardui ostacoli vocali e scenici dell’insidiosa parte di Lady (molto efficace nella scena del sommambulismo, anche se ridicolmente abbigliata in una mise oscillante fra Canio dei Pagliacci e una judoka). Giuseppe Altomare sa cantare e capisce ciò che deve fare, ma purtroppo l’esiguità dello strumento non lo aiuta a drammatizzare il personaggio di Macbeth. Il tenore Dario Di Vietri lascia intuire non comuni potenzialità vocali, qualora ben istruite. Il migliore del quartetto si è rivelato il Banco di Giorgio Giuseppini, una delle pochissime autentiche voci di basso italiane oggi esistenti. Calorosa l’accoglienza del pubblico, con qualche contrasto nei confronti di Argento.

Invece il Regio di Torino ha perduto una splendida opportunità per colmare una lacuna della sua programmazione. Si sarebbe potuto approfittare del bicentenario verdiano per mettere in scena Stiffelio, la sola opera del Maestro mai rappresentata in città. Invece, si è ancora una volta preferito affidarsi a un titolo del repertorio più collaudato, anche se non particolarmente popolare, e il 9 ottobre riproporre, per l’inaugurazione della stagione 2013-14, Simon Boccanegra (opera che lo stesso Verdi definì «tavolo zoppo»).

Due sono stati i punti di forza di questo ennesimo Simon Boccanegra: l’allestimento d’impianto tradizionale, funzionale e visivamente accattivante, firmato nel 1979 da Sylvano Bussotti e ora riproposto dopo un’accurata operazione di restauro; la bacchetta fervida e risoluta di Gianandrea Noseda, molto festeggiato dal pubblico, in una delle sue migliori interpretazioni al Regio. Ottima la prestazione del coro che, istruito da Claudio Fenoglio, si è confermato fra le migliori compagini oggi attive nei teatri italiani.

Il palcoscenico ha risposto con una prova complessivamente sufficiente, anche se non proprio esaltante. Il migliore è stato Michele Pertusi: come sempre canta benissimo (ammirevole il perfetto “legato” di «Prega Maria per me»), anche se gli manca quell’adeguata proiezione della voce di basso verdiano che la parte di Fiesco esige. Protagonista autorevole più fisicamente che vocalmente si è rivelato Ambrogio Maestri, al quale fa difetto quella sicurezza nel controllo dei piani e pianissimi di cui è costellata la parte del Doge. L’altro baritono, Alberto Mastromarino, si muove con scioltezza, ma nell’insieme non è andato oltre una generica sufficienza.

I due elementi che più degli altri costituiscono il lato debole di questo Simon Boccanegra sono il tenore Roberto De Biasio e il soprano Maria José Siri: lui stenta a concretare le speranze formulate sul suo conto in occasione dei trascorsi donizettiani all’inizio della sua promettente carriera; lei si sforza, talora con buoni risultati, di compensare un timbro di voce poco gratificante con l’espressività del fraseggio.

 
 
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