«L’Isis ha creato un modello assolutamente nuovo ed efficace: un sistema piuttosto sofisticato di diffusione della cultura del terrorismo». A parlare è il dottor Arije Antinori, esperto europeo di terrorismo, coordinatore del Cri.Me Lab “Sapienza” dell’Università di Roma.
«Lo Stato Islamico», continua, «rappresenta, purtroppo, un salto di qualità inedito: utilizza con estrema padronanza il web, produce narrazione attraverso la retorica e l’ideologia della guerra all’Occidente, “racconta” l’eroismo dei kamikaze come figure da imitare. È il primo vero fenomeno di immaginario globalizzato. Cosa che Al Qaeda non era riuscita a fare. In sintesi, l’Isis riesce a mettere insieme azione e rappresentazione. Questo è un grosso problema sul piano della prevenzione. Non si tratta più solo di impedire o fermare un’azione terroristica o violenta. Devi contrastare una cultura del terrorismo».
Arije Antinori.
- È per questo che dimostra una grande capacità di diffusione in tante parti del mondo?
«Sì. Fa proseliti e trova affiliazioni nei Paesi europei, in Africa, in Asia, negli Stati Uniti. Coinvolge “adepti” che vivono in contesti diversi e di età diverse. Ovviamente, agisce pescando in un grande bacino di persone, perciò anche se ne arruola pochi nella grande massa, è comunque un numero significativo».
- In quali contesti trova facile penetrazione?
«Dove ci sono persone che si percepiscono come marginalizzate e discriminate, che si sentono prive di futuro, dove vi sono contesti di crisi e di depressione economica. A costoro lancia un messaggio forte, di violenza, ferocia, supremazia, che per noi sono disvalori, ma diventano valori per chi abbraccia questo “credo”».
- Quindi, da dove partire per sconfiggere il “sistema del terrore”?
«La prima prevenzione è culturale. Noi non stiamo dando un progetto di futuro: crisi economica, precarietà, carenza di lavoro, ghettizzazione. Non lanciamo alcun messaggio appetibile. La prima risposta è proporre un modello diverso di futuro. Che prospettive ha, oggi, il giovane europeo? A tinte fosche. Secondo: occorre destrutturare la rappresentazione dello Stato Islamico. Un esempio: tutti ricordiamo il terrorista che infierisce e uccide il poliziotto francese musulmano, dopo l’attentato a Charlie Hedbo. Quell’episodio aveva una forza comunicativa enorme per mostrare il vero volto dell’Isis. Ma non abbiamo saputo utilizzarlo».
- L’Isis usa figure diverse: le milizie nello Stato Islamico, le cellule in Occidente, i combattenti stranieri…
«Non solo. Ha le organizzazioni “affiliate” in Africa. E i “lupi solitari” – i più difficili da individuare dal punto di vista della prevenzione – come nel caso dell’attentato di Boston. Basta una pentola e un po’ di chiodi per far esplodere una bomba. Dobbiamo far fronte a soggetti diversificati. In più hai la rappresentazione via web: la retorica dell’attacco, dell’eroismo. Vengono sollecitate aspirazioni profonde. C’è chi ci crede e abbraccia il progetto, chi dà appoggio, chi parte come combattente, chi ritorna e recluta nuove leve».
- I fatti di Bruxelles come quelli di Parigi hanno evidenziato il grande problema del coordinamento europeo delle forze di polizia. Che fare?
«Il coordinamento esiste, ma dev’essere implementato e operativamente più dinamico per essere più incisivi rispetto a queste reti criminali che sono in grado di riconvertirsi, di mimetizzarsi, di spostarsi da un Paese all’altro».
- Emerge anche il fatto che i membri dell’Isis possono contare su forti coperture.
«Lo abbiamo visto nel caso di Salah, il terrorista di Parigi arrestato pochi giorni fa. Dopo l’attentato ha telefonato per chiedere di “andarlo a recuperare”. Sono andati a prenderlo e nessuno gli ha chiesto nulla. Fai parte della comunità, sei dentro una sorta di “fratellanza” dentro la quale nessuno ti contesterà mai che ne sei parte».
- Quanto conta il fatto che lo Stato islamico è anche padrone di un territorio?
«Molto. Il Califfato dà concretezza al modello. L’Isis è in grado di fartelo vedere, e ti racconta che là è tutto bello, che funziona. Inoltre, ripropone un modello storicamente è già esistito: “Ecco, quello è il luogo del tuo futuro”. Anche per questo l’Isis è capace di disseminare e contaminare: utilizza una modalità ultramoderna per comunicare, arriva in tutto il mondo, ma usa una mistica narrativa del passato che ha funzionato. È un modello estremamente sofisticato ed efficace».
- Molti analisti sostengono che si stanno palesando tutti i limiti dell’azione di intelligence. È vero?
«Più che di limiti di azione, credo si debba parlare di immaturità del sistema di infosharing europeo. Quindi il problema ritengo sia nel fatto che l’Europa è ancora strutturata su di un modello fondato ancora sullo Stato-nazione, anche per quanto riguarda forze di polizia, sistema di giustizia, codici penali. Quello che serve oggi in Europa, per una efficace azione di prevenzione e contrasto, relativamente all'aggressività della minaccia terroristica jihadista, risulta insufficiente. Se un terrorista oltrepassa un confine il poliziotto di là dalla frontiera non ci può andare, tanto meno armato, non ci sono gli strumenti per agire in un altro Paese. Per questo ci teniamo stretta la Nato, perché è l’unica reale struttura sovranazionale. È l’unica realtà capace di attraversare un confine e fermare una persona. Non solo. Prendiamo l’esempio dei foreign fighters, i cosiddetti “combattenti stranieri”, sono francesi, belgi, inglesi: è un problema europeo. Occorrono procedure più snelle, anche con la creazione di task force multinazionali di polizia in grado di muoversi tra i confini dei diversi Paesi. Occorre, e presto, mettere le basi».
- Quindi, da dove cominciare?
«Dalle basi, appunto. Se non esiste un codice penale europeo, un sistema di giustizia europeo, forze di polizia europee in grado di operare rapidamente sul campo a livello transnazionale, non si va da nessuna parte. È come se per affrontare un lungo cammino, mi limitassi a conoscerne la direzione, la conformazione, senza portare con me il necessario per affrontarlo. L’intelligence è la risultante che sta sopra tutta questa articolata struttura di base che non deve appunto “galleggiare” nel vuoto, ma essere ancorata al terreno, quello europeo. È parte di un’architettura. Insomma, se tutto il resto non c’è, lo stesso prodotto dell'intelligence ne risulta significativamente limitato».