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mercoledì 11 settembre 2024
 
 

L’italiano della lista di Schindler

26/01/2015  «Mio padre era stato internato ad Auschwitz. Si salvò perché venne assunto come esperto tipografo». La testimonianza di Daniel Vogelmann, figlio dell'unico italiano inserito nella famosa "lista di Schindler".

Lo sguardo di un signore sulla sessantina si abbassa sul monumento che caratterizza il binario 16 di Firenze.

«Moltissimi fratelli ebrei sono partiti da qua per non fare più ritorno». Daniel Vogelmann, figlio dell’unico ebreo italiano della Schindler’s List, è catturato dai ricordi di una storia personale.
«Nel 1993 dopo il famoso film di Spielberg furono prodotti anche alcuni cortometraggi di approfondimento sulla famosa lista. In alcuni fotogrammi di uno di questi vengono inquadrati i fogli originali della “Schindler’s List”; è stata una scoperta sorprendente, che mi ha spinto a eseguire delle ricerche direttamente presso l’archivio dello Yad Vashem a Gerusalemme, dove ho avuto la conferma ufficiale.
  
Successivamente anche a Bad Arolsen in Assia, dagli archivi contenenti vari dossier segreti sui crimini del Terzo Reich, ho avuto un’ulteriore conferma da una lista originale di Schindler con 1.117 nominativi, uno solo è italiano; la riga riporta “39.Ju.Ital.69l77 Vogelmann Szulim 28.4.O3 BuchdruckerMeister” (maestro tipografo). Mio padre».

- Chi era suo padre?
«Mio padre Schulim è nato vicino a Leopoli nel 1903. Dopo l’inizio della Grande Guerra si trasferì a Vienna. Aveva 15 anni e, spinto da un forte ideale, partì per la Palestina, la terra dei nostri Padri. Mio nonno Nachum lo accompagnò alla stazione e gli disse: “Che vuoi che ti dica? Di mangiare con coltello e forchetta? Sii sempre onesto!”. Non si videro mai più».

-Come viveva a soli 15 anni in Palestina?
«Nel 1921, rientrò in Italia. Mio padre era un ebreo osservante, suo fratello Mordechai era uno stimato rabbino a Firenze. Mordechai chiamò quindi Schulim nel capoluogo fiorentino e gli procurò un lavoro che gli permettesse di rispettare la festività del sabato. Lo assunse l’editore e libraio ebreo Samuel Olschki, proprietario della Tipografia Giuntina. Successivamente si sposò con Annetta Disegni, dalla loro unione nel 1935 nacque Sissel».

- Un buon lavoro, un bel matrimonio, una bellissima bambina, ci sono tutti gli ingredienti per progettare con ottimismo il futuro...
«Nel 1938 con la promulgazione in Italia delle leggi razziali iniziò la grande tragedia. La moglie di mio padre venne licenziata dalla sua cattedra d’insegnamento all’Istituto Duca D’Aosta di Firenze, Sissel dovette lasciare l’asilo pubblico per quello ebraico. Dopo l’invasione tedesca dell’8 settembre del 1943, mio padre, con Annetta e la piccola Sissel, tentò di fuggire verso la Svizzera, ma vicino a Sondrio vennero arrestati».

- E successivamente?
«Il 30 gennaio del 1944, con altre 607 persone, vennero condotti alla Stazione Centrale di Milano dove, al tristemente noto “binario 21”, li attendeva un treno per Auschwitz. Il viaggio durò una settimana: arrivarono in 610 ad Auschwitz, sono tornati a casa in 20, tra questi anche mio padre. Sua moglie Annetta e la piccola Sissel non tornarono più.
Lui riuscì a sopravvivere grazie alla sua professione di tipografo che si rivelò molto utile per i nazisti; quest’ultimi volevano stampare documenti bancari, sterline e dollari falsi (come narra un altro celebre film: Il falsario-Operazione Bernhard) per mettere in grave crisi la Banca centrale inglese e americana.
Fu trasferito, per le sue capacità e peculiarità professionali, a Plaszow ed è proprio nel campo di lavoro, del famigerato comandante Amon Goeth, che deve essere entrato in contatto con coloro che lavoravano per Oskar Schindler.
Successivamente, lui come gli altri del gruppo, furono trasferiti nella fabbrica di Schindler a Brunnlitz. Fu liberato alla fine di aprile del 1945 dall’Armata Rossa, tornò a casa a piedi e con mezzi di fortuna, una volta arrivato a Firenze trovò solamente la sua Tipografia Giuntina.
La acquisì divenendone l’unico proprietario e riuscì a ricostruirsi una famiglia: si sposò con Albana Mondolfi vedova Passigli e nel 1948 nacqui io».

- Ha condiviso con lei qualche ricordo di quei tragici anni?
«Pochissimo, quasi niente. Ricordo la sua visibile amarezza, quando mi raccontava dell’indifferenza e dell’incredulità manifestata dalle persone, quando tentava di raccontare cosa aveva visto e vissuto».

- Auschwitz ha influenzato la fede di suo padre?
«Assolutamente sì. Noi abbiamo una visione precisa del Dio dei nostri Padri, questo Dio potente, il nostro “Dio degli eserciti” sembra aver fermato i propri passi alle soglie d’ingresso dei campi, dove invece è entrato il suo popolo. È difficile avere una grande ed incondizionata fede nel Dio di Israele dopo Auschwitz. Alla mia domanda se credesse ancora in Dio lui mi rispondeva: “Un essere superiore ci sarà...”».

- Com’è nata la casa editrice La Giuntina?
«Nel 1974 (lo stesso anno di Oskar Schindler) mio padre è mancato. Sulla lapide della sua tomba è inciso il numero di matricola che aveva sul braccio. Oltre al numero di matricola è incisa una frase in ebraico tratta dal Qohelet (7,1) tradotta significa: “Un buon nome è preferibile all’unguento profumato” (inteso come grande ricchezza, ndr). È una frase che mio padre ripeteva spesso nei tempi delle decisioni importanti e che ha onorato tutta la sua vita. Risuona in me al pari del “Sii sempre onesto” che gli disse un giorno suo padre. La grande sofferenza dovuta alla sua perdita è stata determinante per fondare la casa editrice; nel 1980 il progetto ha preso forma».

- È mai andato ad Auschwitz?
«Qualche anno fa, partendo proprio dal binario 16. Una volta arrivati all’interno del campo il ricordo di Sissel mi ha rapito, il dolore guidava i miei occhi in una ricerca di lei in quel luogo simbolo della notte della ragione dell’uomo». Nell’ottobre dello scorso anno a Daniel Vogelmann, per il lavoro trentennale della sua casa editrice, è stato conferito dal Parlamento europeo il premio “Cittadino europeo 2013”.

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