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domenica 16 febbraio 2025
 
Parla l'esperto
 

Lo psichiatra Charmet: «Facciamo parlare i ragazzi delle loro fantasie di morte»

10/04/2017  Un fenomeno allarmante, quello dei suicidi giovanili: al Crisis center di Milano si fa prevenzione, anche aiutando i ragazzi a tirare fuori i loro propositi. «Condividere il segreto con un adulto competente riduce la sudditanza dei ragazzi al patto con la morte volontaria»

Riproponiamo una riflessione sul fenomeno del suicidio tra i giovani di Gustavo Pietropolli Charmet, specialista in Psichiatria, direttore scientifico del Crisis center de L’amico Charly di Milano, presidente dell’ Istituto Minotauro di Milano

«Abbiamo il privilegio professionale di poter lavorare come psicoterapeuti in un consultorio rivolto ad adolescenti a rischio suicidale. Nel corso degli ultimi sei anni di attività abbiamo lavorato con quasi quattrocento ragazzi a rischio di volersi dare la morte volontaria e i loro genitori. In questo breve contributo passo in rassegna i motivi in base ai quali sono sicuro si debba organizzare in tutto il Paese una risposta intelligente e tempestiva alla diffusione di istanze autolesive e suicidali fra i ragazzi. 
La nostra esperienza è stata complessivamente incoraggiante; non è il caso di essere troppo ottimisti ma abbiamo l’impressione di aver imparato molto. Il dispositivo che abbiamo allestito si basa su modelli di intervento di analoghi centri operanti in altre nazioni europee da molti anni e che fanno riferimento alle più recenti acquisizioni psicologiche e psichiatriche sull’origine del dolore mentale in adolescenza. Col passare degli anni abbiamo introdotto cambiamenti e procedure nuove rispetto all’assetto iniziale: la relazione prolungata con i ragazzi, con le loro madri e i loro padri ha aumentato la nostra competenza e ci ha indotto a fare delle scelte innovative rispetto alle modalità consuete di proporre il trattamento psicoterapeutico in adolescenza. È verosimile che dovranno essere introdotte altre innovazioni, soprattutto per quanto concerne l’intervento nell’ambiente di vita dei ragazzi, ma è poco probabile che si debbano abbandonare le idee guida che ci hanno ispirato in questi anni.
Nella maggior parte dei casi trattati, infatti, i fattori di rischio nei confronti della propensione a darsi la morte volontaria sono stati notevolmente ridotti.
 

Suicidio tra i ragazzi: un progetto segreto che cresce nella solitudine

Il progetto suicidale segreto, fantasticato da molto tempo, è sempre stato verbalizzato e portato nelle relazioni di aiuto, perdendo perciò il suo fascino ipnotico. Si tratta di un obiettivo irrinunciabile nella relazione di aiuto con adolescenti reduci da un tentativo di suicidio o che coltivino un progetto suicidale. Il rischio di comportamenti suicidali è strettamente correlato alla prepotenza di una fantasia suicidale che i ragazzi del nostro centro ci hanno sempre confermato di coltivare da mesi o anni. Aiutare i ragazzi a parlare del loro progetto mortifero è una impresa relazionale difficile, ma essenziale. Nel nostro centro si parla della relazione con la morte: i ragazzi ci hanno insegnato che nella loro vita di relazione non si può farlo, anzi non si deve e ciò li ha indotti a conservare chiusa nello spazio privato del Sé la fantasia di poter utilizzare la morte come soluzione ai problemi della vita. Condividere il segreto con un adulto competente riduce la sudditanza dei ragazzi al patto con la morte volontaria. Non è vero che parlare di fantasie suicidali è un rischio; è vero invece che ammutolire il bisogno di parlarne sospinge verso l’azione. L’unico antidoto alla violenza dell’azione è la parola: l’unico modo per trattenere i ragazzi dal darsi la morte è costruire legami, far sentire loro l’importanza dei vincoli. Il suicidio è rottura violenta dei legami: per resistere alla prepotenza dell’istanza suicidale il legame deve saper contenere il pensiero della morte e la sua simbolizzazione attraverso la parola, la rappresentazione. Nel nostro centro questo è l’argomento all’ordine del giorno. Prima si parla del fascino della morte, dopo delle difficoltà della vita.
La relazione ostile col proprio corpo è sempre stata intercettata dal lavoro di consultazione, divenendo così consapevole e oggetto di riflessione, con forte propensione a concretizzarsi in pratiche riabilitative finalizzate a una più soddisfacente mentalizzazione della corporeità sessuata e generativa. Si tratta di un obiettivo importante poiché l’atto suicidale esplicita una pessima relazione col proprio corpo. I ragazzi del centro hanno attaccato il corpo con i veleni, le corde, il grande salto nel vuoto. Il loro corpo era disponibile per essere vissuto come una appendice del Sé, causa di fastidi e problemi, esposto al rischio di essere ritenuto uno dei responsabili della sofferenza della mente, il protagonista negativo degli insuccessi sociali e sentimentali. L’attacco mortale al corpo può essere prevenuto solo se si organizza una pace conveniente fra mente e corpo e se esso viene integrato nella percezione della propria soggettività. I nostri ragazzi spesso hanno l’impressione di vivere nel proprio corpo come in un ambiente biologico inadeguato, ostile, infido. Da ciò deriva la fantasia che sbarazzarsi del corpo non significhi morire: può invece voler dire sentirsi finalmente liberi. Rivolere il proprio corpo e averne cura è perciò uno degli obiettivi cruciali della consultazione psicologica dopo un tentativo di suicidio.
Le profonde preoccupazioni nei confronti dei rischi del completamento del processo di individuazione quasi sempre sono state oggetto di indagine tesa a produrre rappresentazioni nitide favorendo scelte emancipative, riducendo la tentazione di "agire" tumultuosamente la separazione dal vincolo infantile con i genitori e le immagini narcisistiche del Sé. Non c’è infatti riduzione del rischio suicidale se non progredisce il processo di soggettivazione e se i ragazzi rimangono prigionieri della fantasia che la rottura del rapporto di dipendenza dalla madre e dagli adulti della propria infanzia possa avvenire solo con la recisione violenta del legame. Molti tentativi di suicidio rappresentano una disperata ricerca di rinascita dopo una morte iniziatica: gli adolescenti del nostro centro sono tentati di uccidere il bambino che sentono ancora di essere per favorire la nascita del nuovo maschio o della nuova femmina. Il rischio permane se non riescono a rifornirsi di rappresentazioni meno violente del passaggio dalla dipendenza infantile alla autonomia dell’adolescenza.

La vulnerabilità al dolore

  

La vulnerabilità narcisistica è sempre stata oggetto di indagine e riflessione consentendo il più delle volte una riduzione della propensione a vivere esperienze di umiliazione e mortificazione anche a seguito di flebili insulti narcisistici: naturalmente l’organizzazione narcisistica persiste, ma spesso si assiste a un netto miglioramento delle capacità di gestione della propria profonda fragilità. Il suicidio, infatti, è quasi sempre innescato dalla fantasia di riscattarsi dall’offesa narcisistica o di mettersi in salvo dalla minaccia di un imminente mortificazione scolastica o familiare. Il principale fattore di rischio è proprio la vulnerabilità al dolore della vergogna e dell’umiliazione. Scomparire e vendicarsi sono purtroppo le modalità più scontate per attenuare la sofferenza profonda che arreca la vergogna e la mortificazione.
Lo sviluppo della capacità di rappresentare il proprio Sé nelle aree relazionali più significative è quasi sempre apparso un traguardo raggiunto da parte dei ragazzi in consultazione che, trovandosi in una grave situazione di crisi, hanno dimostrato una particolare motivazione a definire il senso e il valore della crescita, della vita, dell’amore e degli altri.
La relazione dei figli con i genitori, cambia molto. Nulla rimane come prima dopo un tentativo di suicidio del figlio adolescente. I risultati ottenuti con la nostra metodologia di intervento sono molto interessanti proprio per quanto concerne la gestione da parte del ruolo materno e del ruolo paterno del profondo bisogno di capire meglio e di cambiare la relazione educativa, rendendola adeguata all’importanza del messaggio contenuto nel gesto suicidale o nel disvelamento della propensione alla morte volontaria. L’attenzione prestata dalla madre e dal padre ai "pensieri segreti" del figlio innesca un nuovo stile comunicativo e riduce i fattori di rischio legati al silenzio e all’impossibilità di comunicare con le parole e la conseguente necessità di ricorrere all’eloquenza delle azioni violente.
Risultati clinici incerti o nulli sono stati ottenuti in quei casi in cui prevale la multiproblematicità della famiglia o la gravità della psicopatologia individuale. Ciò dipende dalla inefficacia dello strumento psicoterapeutico nei confronti delle problematiche sociali e degli stati psicotici, qualora non integrato da interventi di rete e da un forte mandato sociale. Il nostro servizio ha sempre tentato la strada della costruzione di una rete di interventi sinergici nei confronti di questi difficilissimi casi, ma raramente si è riusciti a mobilitare le energie necessarie e le risorse disponibili sono apparse inadeguate a produrre un effetto trasformativo. Fortunatamente i casi caratterizzati da una grave psicopatologia o da gravissime carenze educative sono, nella nostra casistica, molto rari.

Quando i tentativi di suicidio sono ripetuti

I casi di "suicidarietà cronica" costituiscono il problema clinico più arduo da affrontare e tentare di risolvere. I ragazzi caratterizzati da un legame positivo con la morte volontaria sono rari, ma costituiscono il cuore del problema clinico. Le caratteristiche del loro modo di pensare e la incredibile relazione che mantengono con l’opzione suicidale ci è divenuta familiare. Con loro la relazione psicoterapeutica si prolunga nel tempo ed è caratterizzata da episodi di autolesionismo grave o di veri e propri tentativi di suicidio che vengono però preannunciati al proprio terapeuta consentendo rocamboleschi interventi per arrivare in tempo e scongiurare il pericolo gravissimo e incombente. Nonostante la "cronicità" dell’ideazione suicidaria riteniamo di poter considerare un "successo clinico" l’aver stabilito con questi ragazzi una relazione stabile e di forte alleanza che si è rivelata capace di mediare con la prepotenza del loro vincolo con il progetto suicidale.
Di particolare efficacia ci appare la relazione stabilizzata con i loro genitori, che generalmente si alleano col servizio come quasi sempre succede allorché si debba lottare contro la morte incombente di un proprio congiunto, soprattutto se figlio. I casi caratterizzati da un progetto suicidale dichiarato appaiono quelli più propensi a miglioramenti "clinici" rapidi e abbastanza profondi. L’esperienza clinica effettuata con questi ragazzi a rischio ci ha insegnato quanto possa essere indispensabile, poiché efficace, un intervento tempestivo.
Madri, sorelle e figli di genitori suicidi ricavano dalla consultazione psicologica presso il nostro centro benefici interessanti. Riteniamo che per offrire loro una relazione di aiuto efficace sia necessaria una specifica competenza; ci sembra di averla maturata pur nella consapevolezza di quanto rimanga da fare per capire in profondità il danno arrecato dalla violenza della scelta suicidale alle persone che amavano il congiunto morto suicida.
Questi primi cinque anni di attività, e soprattutto gli ultimi due caratterizzati dalla notevole espansione dell’area di intervento del servizio innescata dal finanziamento della fondazione Umana Mente, hanno consentito di raccogliere una enorme quantità di dati su un fenomeno ancora poco studiato in Italia in modo diretto, sul campo e su una popolazione di giovani così estesa. È soprattutto l’intensità e la profondità della relazione di aiuto a ragazzi propensi alla morte volontaria e ai loro genitori che costituisce la "novità" e perciò il valore della ricerca clinica condotta. Abbiamo motivo di ritenere che i dati raccolti consentano delle riflessioni di un certo respiro, confermando solo parzialmente quanto riportato in letteratura sul fenomeno del tentato suicidio in adolescenza. Riteniamo ad esempio che sia stata sovradimensionata l’importanza della depressione e della psicopatologia nel determinismo della morte volontaria in adolescenza. I risultati scientifici della nostra ricerca evidenziano l’importanza dei rischi evolutivi e del contesto affettivo e relazionale in cui cerca di crescere l’adolescente in crisi suicidale. Ciò ha delle ricadute evidenti sulla metodologia della presa in carico individuale e del contesto e induce a ipotizzare che possa essere particolarmente rischioso introdurre nel circuito psichiatrico un adolescente reduce da un tentativo di suicidio.
L’enorme quantità di dati raccolti e la certezza di aver utilizzato una metodologia efficace e innovativa ci inducono a ritenere che sia nostro dovere pubblicare l’esperienza realizzata in questi anni e renderla disponibile al dibattito che sta decollando nel nostro Paese su come si debba contrastare l’aumento di morti per suicidio fra i giovani.
Riteniamo che i risultati ottenuti dalla forte propensione a comunicare e divulgare che caratterizza gli operatori del Crisis center e il personale dirigente dell’associazione abbia prodotto risultati apprezzabili nel fratturare la congiura del silenzio sulla morte per suicidio di ragazze e ragazzi adolescenti e giovani adulti. L’associazione e il Crisis center sono divenuti referenti utili di numerose indagini giornalistiche, interviste televisive, dibattiti pubblici, contribuendo con il peso delle esperienze realmente fatte in diretto e quotidiano contatto con il fenomeno ad aiutare il contesto culturale a creare uno spazio comunicativo in cui avviare un processo indispensabile di collettiva responsabilizzazione nei confronti di ciò che molti giovani esprimono con condotte autolesive e suicidali.
L’obiettivo di partecipare allo sviluppo della cultura sulla propensione alla morte da parte di numerosi giovani faceva parte del progetto iniziale e si è espresso nel tentativo di sensibilizzare il personale docente e i dirigenti scolastici attraverso uno sciame di iniziative il cui effetto si misurerà a distanza di tempo.

I pensieri dei ragazzi che vogliono suicidarsi

  

È un giorno speciale quello della morte volontaria, trascorso generalmente fingendo di nulla, mentre sta succedendo di tutto, abbastanza rassegnati alla conclusione, soddisfatti di aver finalmente deciso, o quasi deciso, o di essere sul punto di decidere. Nessuno si accorge di nulla, i preparativi sono clandestini, spesso nella realtà non si tratta di cambiare gran che, nella mente invece è necessario sovvertire l’assetto dei pensieri convenzionali e riorganizzare i ricordi in modo da renderli congrui con la realizzazione imminente. È anche necessario togliere importanza alle relazioni affettive, rendere trasparenti genitori e fratelli, convincersi che è la soluzione migliore per tutti, oppure che è la loro punizione necessaria; il più delle volte però si tratta di una faccenda che non li riguarda, nella quale verranno coinvolti, ma che non proviene da loro e non li concerne come destinatari dell’intento comunicativo. Anche gli amici e le amiche non vengono allertati, lo saranno a volte con messaggini lanciati pochi attimi prima o incisi nella memoria del telefonino, che nelle ultime ore spesso funziona a pieno regime senza che nessuno comprenda la natura del messaggio, destinato a diventare comprensibile solo dopo che l’atto compiuto regala le connessioni necessarie.
È un giorno pieno zeppo di significati segretissimi quello scelto per realizzare la morte volontaria: le ultime ore, gli ultimi minuti condensano i pensieri, i dolori, la rabbia e il desiderio di vendetta mai vissuti con tanta calma, immersi nella solitudine radicale che regala l’inutile presenza dell’altro che parla a vanvera poiché nulla può e deve immaginare, il bisogno di un gesto imperiale, la speranza che serva finalmente a qualcosa, un po’ di serietà e il massimo di disperazione, la certezza della fine di tutto, anche del dolore, ma non solo di quello, deve finire anche l’amore impossibile, la paura e soprattutto la vergogna intollerabile che annulla l’illusione di valere qualcosa.
I ragazzi del Crisis center, sostenuti dalla nostra passione, s’accorgono fin dall’inizio della consultazione che si può finalmente parlarne e allora lo fanno molto volentieri, tanto ormai è successo, si tratta solo di spiegare perché, per chi, e come mai proprio quel giorno, in quel preciso momento. Non conoscono tutte le connessioni, spesso ignorano l’intenzione più profonda, quella strategica, ma sono molto informati su ciò che ognuno di noi ignora: come si possa preferire la morte alla vita, come mai uccidersi possa diventare un imperativo morale, come possa la morte incuriosire tanto da dover andare a vedere come è fatta, come si possa pensare di uccidersi senza morire, come si possa graduare la gravità dell’attacco al corpo in funzione dell’odio che suscita e che la sua vitalità rende intollerabile. Succede così che si parla del giorno della morte volontaria nel corso di tante consultazioni, fino a quando si giunge a dare senso al gesto apparentemente insensato e si costruisce un sapere condiviso che rimarrà disponibile per sempre, per tutta la durata della consultazione, e che servirà per dire qualcosa di importante ai genitori. Le emozioni e le intenzioni di quelle ore verranno citate molte volte, nella speranza di imparare a governarle meglio e offrire loro uno sbocco che riduca il danno, abbassi la violenza del gesto rendendolo compatibile con la sopravvivenza biologica. Ciò che si capisce dalla ricostruzione di quelle ore strane e magnifiche, terribili e oscene, servirà per individuare i fattori di rischio nei confronti della spinta alla morte volontaria, poiché ora si sa che quella costellazione di eventi relazionali e il tumulto di quelle passioni sospinge verso la morte come guarigione dalla vita insopportabile.

 

Capire come nasce il desiderio di suicidarsi per impedirlo

È di vitale importanza riuscire a capire perché si è deciso in quel preciso momento, in quel giorno, a quell’ora, in quel modo, con addosso quei vestiti, mentre non c’era nessuno o invece c’erano tutti, ma dormivano, non s’accorgevano e avrebbero trovato il corpo, oppure il cadavere, oppure non è affatto chiaro cosa e neppure esattamente chi. A incitarmi a raccontare queste strane storie è anche la sfida più volte sostenuta con ragazzi che dopo qualche mese di consultazione debbono riprovare a uccidersi senza morire, ma sentono il bisogno di avvertirmi indirettamente che il giorno si avvicina e che debbo capirlo e non dormire sugli allori. Sono i casi, purtroppo frequenti, in cui si deve imparare a distinguere un giorno dall’altro poiché c’è quello fatidico ed è necessario saperlo riconoscere in quanto preceduto da una rete di segnali, che lo fanno temere e costringono a dire o fare qualcosa di speciale».

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