Il patrimonio artistico, fin dalle parole, viene percepito come qualcosa che ha a che fare con una risorsa economica ancora prima che culturale: non per niente parliamo spesso di “valorizzare” i "beni" culturali. Non tutti condividono questo punto di vista. Tra questi c’è di sicuro Tomaso Montanari, professore di Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli, autore di vari saggi, ultimo dei quali: il popolo e le pietre, pubblicato da poco per i tipi di Minimum fax.
Professor Montanari, a che cosa pensa quando sente l’espressione “valorizzare i beni culturali”? «Devo convenire con Nanni Moretti: chi parla male vive male. Bene e valorizzazione fanno pensare a cose che si possono vendere e comprare e non mi pare una buona idea. Mentre patrimonio, non a caso la Costituzione parla di questo, discende da patres e patria, è quello che il padre lascia a un figlio, cioè tradizione, ponte tra passato e futuro».
Ma la valorizzazione può avere aggettivi diversi da “economica”. O no?
«Infatti, il codice dei beni culturali all’articolo 6 è chiarissimo, dice che la valorizzazione deve produrre cultura non denaro. E comunque io credo che, più che valorizzare il patrimonio, dobbiamo essere valorizzati noi, come esseri umani, dal nostro patrimonio. La rendita del patrimonio culturale è morale, spirituale, deve passare il messaggio che che ci sono cose che non si possono né comprare né vendere. Se nella Costituzione: se il patrimonio sta all’articolo 9, tra i principi fondamentali, e non attorno a 40, dove ci sono i rapporti economici, c’è un motivo».
C’è, è innegabile, il problema della sostenibilità economica. Amministrare e conservare costa.
«Vero. Anche la sanità e la scuola costano: e allora potremmo dire che d’ora in poi si dà un rene solo a chi se lo può comprare o che si affittano le aule della scuola al set del prossimo Grande fratello. È una provocazione, ma la mancanza di soldi non può essere l’alibi per passare dalla Costituzione alla prostituzione. È una scelta politica decidere di investire più in armi che in cultura».
C’è un limite entro il quale è ammissibile l’ingresso di privati?
«La stessa misura in cui il privato può entrare nella scuola pubblica. Io non credo che possa entraci, e mi fa piacere che l’abbia detto anche il ministro Bray, nessun privato che abbia il fine del lucro, cosa che invece succede dalla Legge Ronchey del 1990. Sul terzo settore sarei d’accordo, a patto però di non scindere la tutela e la ricerca, perché solo così si produce conoscenza. Un’associazione privata spesso tende a trasformare il patrimonio artistico in luogo di svago. Quarant’anni fa il patrimonio stava sotto il ministero della pubblica istruzione, oggi con il ministero dei Beni culturali è associato al turismo. Sono due concezioni diverse».
Non c’è modo di far coesistere i due aspetti, senza svilire significati?
«Io in questo sono radicalmente evangelico: credo che non si possano servire due padroni».
Ma turismo non è anche fruizione?
«Sì, ma in Italia dove il 95% degli “eventi” culturali è gestito da privati assiastiamo a mostre che non sempre rispettano l’integrità delle opere e che spesso non hanno un apparato didattico. Da queste mostre, pur piene di gente, si esce più desertificati di prima. E infatti poi non si comprano libri e non si va a vedere il patrimonio artistico diffuso. I privati si concentrano sui grandi santuari-feticcio ma ignorano completamente il patrimonio minore. Eppure la specificità dell’Italia sta nel fatto che non c'è bisogno di andare a vedere il patrimonio perché ci si cammina dentro anche facendo altro».