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venerdì 18 aprile 2025
 
 

Londra 2012, tutti i Giochi del mondo

06/08/2012  Ci sono due diversi Giochi olimpici a Londra 2012: i Giochi del mondo e quelli dell’Italia. Ed emanano già riflessi sull'edizione di Rio de Janeiro 2016. Un ritratto di Michael Phelps.

I Giochi del mondo sono atletica a atletica e atletica e nuoto. Se si vuole anche lotta e sollevamento pesi, discipline misurabili legate a gesti diciamo primari dell’uomo. Senza attrezzi che non siano strettamente necessari per l’esplicazione dei movimenti. Senza intermediazioni che possono essere strumenti, giurie, regolamenti minuziosi. Senza impegni e tattiche di squadra. Con pochi ricorsi alla tecnologia.  Nel nuoto a Londra 2012 l’Italia non ha preso neanche una medaglia, come non accadeva dal 1984: altro secolo anzi altro millennio. E l’atletica italiana è arrivata a Londra anemicissima quanto a speranze. I Giochi del mondo ci concernono poco, il nostro respiro olimpico c’è, ma è di aria condizionata.

I Giochi dell’Italia sono giochi di intelligenza, dedizione, applicazione, anche astuzia nell’individuare le “placche” meno popolate del programma olimpico, i posti dove muovere meglio le pedine create, cresciute, istruite, motivate, gratificate con una grande cura, oppure dove lasciare sbrigliare senza troppa concorrenza i talenti che il buon Dio ha fatto piovere nel nostro sport (c’è persino il termine nostrano: stellone). Siamo da tempo bravissimi nell’identificazione dentro lo sport tutto di riserve di caccia speciali.

Si pensi alla scherma: chiede scuola (vedi Jesi), tempo, sacrificio, intelligenza, non è certo uno sport semplice, dal 1896 dei primi Giochi siamo in lizza alla grande, e Londra ha detto di noi cose bellissime, specie sulle nostre ragazze. La scherma non è sport popolare, anche se vede una pratica, una partecipazione abbastanza parcellizzate in tanti paesi: i francesi, che nella scherma hanno spartito con noi per un secolo gli allori, a Londra hanno vinto eccome grandi gare nel nuoto, e non ce la sentiamo di dire che non faremmo il cambio, le nostre medaglie di ferro contro le loro d’acqua.

A Londra abbiamo quasi ceduto una nostra riserva di medaglie, quella del ciclismo che sta cambiando geografia ed agiografia. Per fortuna (del bilancio finale) abbiamo superconfermato quella della scherma e ritrovato in pieno quella del tiro, dove le nostre storie, quelle pacate, ispirate ad una ragionieristica efficienza, degli arcieri, così come quella egualmente serena ma personalissimamente intensa della stupefacente Jessica Rossi, la ragazzina con la carabina che vince e stravince anche per i terremotati della sua terra, le nostre storie dicevamo sono sempre legate ad uno spirito da strapaese, ad una scommessa con gli amici prima ancora che con la vita.

Quando non sono addirittura faccende da compagni di scuola, come la splendida duratura vicenda vittoriosa delle schermitrici che hanno fatto di Jesi la capitale d’Italia, e che a Londra hanno contagiato i nostri maschietti fiorettisti, quasi costretti a fare squadra anche loro ed a vincere, per la patria e per l’emulazione. Lo sport nostro vive di belle microstorie che sanno di famiglia: come in fondo v vie e sopravvive il paese, che fra l’altro non ha ancora una politica sportiva autentica, uno sport vero nella scuola. Un sopravvivere simpatico, non esaltante. Magari simpatico perché non esaltante. E simpatico magari meglio che esaltante.

Tutto questo è molto bello. Però non è solennemente glorioso, storicamente sontuoso nel gran mondo dello sport. Un gran mondo che peraltro ha posti tanto seducenti e scintillanti quanto pericolosi. Si pensi al quel continente che si chiama football, dove facciamo cose importanti che però ci disfano tanti principi morali, ci portano spesso a frequentare una crapula da basso impero. Questi sono i giorni buoni per fare certi calcoli, dentro noi stessi.

Ma intanto guardiamo come tutti a Usain Bolt, parliamo di Usain Bolt. Non è vero che mai nessun atleta fu circondato, spinto ma anche avvolto, condizionato da un’attesa così grande. Carl Lewis arrivò per gli Usa ai Giochi di Los Angeles 1984 con il compito (svolto) addirittura di emulare Jesse Owens che, statunitense e nero come lui, nell’atletica aveva vinto quattro medaglie d’oro a Berlino 1936, Giochi del nazismo, sfidando e ridicolizzando le attese “ariane” di Hitler.
Casomai è vero che mai una così piccola porzione di mondo, quale è la sua Giamaica, ha bloccato tutto il resto del pianeta intorno alle gesta non solo di un suo uomo, ma di tutto un movimento come quello dello sprint, maschile e femminile.
In una Londra poi piena di giamaicani fattisi inglesi anzi britannici per fame, e visitata poche ore prima della finale dei 100 dallo straordinario evento del tennis, dove lo scozzese Murray ha vinto a Wimbledon inteso come court olimpico sullo svizzero Federer che aveva vinto pochi giorni prima a Wimbledon inteso come court massimo del tennis professionistico.

Bolt, allora. Anni 26 il 21 agosto, tre vittorie olimpiche (100, 200 e staffetta) a Pechino 2008, poi Londra: primo in 9”63, “resiste” il suo record mondiale (9”58 nel 2009). E’ alto 1,96, pesa 93 chili. Svolazza come nessuno, lanciato va ai 44 e passa all’ora, copre i 100 metri in appena 41 falcate e mezza, toccando terra con i piedi per due secondi e mezzo in tutto. Ha vinto facile su Yohan Blake, il connazionale nonché amicone che lo aveva battuto due volte quest’anno.

Ha eseguito tutto il suo vasto repertorio mimico. Ma si è anche fatto il segno della croce, prima del via. Senza precedenti il suo bis d’oro olimpico. E’ già ricco, diventerà ricchissimo, straricco. Spesso il campione ti annichilisce: lui sembra intento persino più a essere simpatico che a vincere. Auguri di farcela sempre, specialmente contro le affettuose violenze al quale sottoporremo sempre più il suo personaggio.

Ci permettiamo di offrire un piccolo prontuario per seguire i Giochi olimpici che si stanno concludendo, mentre il cosiddetto grande calcio di campionato si sta appropinquando: ormai i due mondi si toccano e stridono, nella testa e nel cuore dell’italiano che ama lo sport anche senza essere, di suo, grande sportivo.

Il primo consiglio è quello di non credere a chi dice che tutto lo sport sano sta a Londra e tutto lo sport malsano sta nell’Italia del pallone.
Non perché il mondo del pallone sia sano,ma perché non lo è quello dell’altro sport: dove ci sono soldi,doping, sponsor, scommesse, corruzioni. E dove il vento di Olimpia, che indubbiamente spira forte, specie con la telespettacolarizzazione estrema dei Giochi e la mondializzazione dell’informazione legata all’uso di cellulari e affini, non muove soltanto le pale classiche e benedette della lealtà, della lotta aperta ma onesta, dell’omaggio al più forte che è anche il più tenace, il più coraggioso, il più chiaro d tutti.

Londra è piena di cose belle come lo è anche il gioco del calcio
(così bello quando è bello, direbbe Manzoni). E come il calcio piena è di cose brutte. il problema è discernere, filtrare, separare. E’ non lasciarsi irretire, drogare dalla bellezza delle riprese, delle proposte, delle tematiche, della favole di giornata.

Bisogna sempre tenere presente che dietro ad ogni performance troppo enfatizzata c’è un discorso nazionalistico (i Giochi), settoriale per non dire settario (il calcio), sempre altamente economico, spesso rigorosamente in malafede.
Parliamo dell’enfasi ufficiale, quella a cui non riusciamo proprio a sottrarci: lei aggressiva, noi morbidi, lei maleintenzionata noi bendisposti.
Nel calcio è rigorosamente finalizzata e personificata nell’enfasi del gol, nello sport olimpico c’è un’enfasi diciamo ufficiale, quella dell’inno, della bandiera, e c’è un’enfasi diciamo casalinga, quella del raccontino spicciolo di piccoli grandi eroismi individuali, personali ignoti alle masse sino al giorno della gara, anzi del successo.
Per cui quasi ogni splendido atleta vittorioso ha passato giorni terribili per malattie tremende, quasi ogni magnifica atleta vittoriosa ha avuto un passato ben che vada da piccola fiammiferaia, quando non da vittima di tanti lupi persino fra le mura di casa.

Bisogna, bisognerebbe prima di offrire commozione o entusiasmo ad una performance e al suo autore, offrire anzi ammollare a noi stessi un po’ di critica per essere arrivati sin lì in piena colpevole ignoranza di uno sport, della sua situazione, dei suoi protagonisti.
E fare il fioretto difficile, impegnativo, di occuparci almeno un poco di questo sport nei quattro anni a venire prima della prossima edizione dei Giochi olimpici. A costo – udite, udite – di sottrarre un po’ di attenzioni alle cose del calcio: pare che non sia peccato mortale.

Pratica umile e però altamente raccomandabile, per questione di dignità e buon gusto, deve essere quella di non affettare subito competenza a proposito dello sport olimpico che viene teleofferto, e di criticare troppo in caso di insuccesso, di applaudire troppo in caso di successo. Sport dei quali non ci importa niente per quattro anni non possono essere di botto da noi spupazzati, nel bene e nel male.
Non siamo obbligati a deificare chi vince, anche se è nostro fratello di passaporto, e neanche a trattar male chi perde, anche se veste di azzurro. Dovrebbero essere, i Giochi, la Grande Occasione per conoscere lo sport, non per conoscere l’opportunismo, il banderuolismo di noi stessi tanto saccenti quanto incompetenti.

E quando la lava del calcio arriverà per sommergerci, dovremo insistentemente cercare di surfare un po’ su di essa cercando di ancora vedere anzi guardare, mentre si allontanano nel tempo, le genti e gli eventi di Londra 2012, di conservare immagini e moniti di quella che non è non la più bella edizione dei Giochi di ogni tempo, anche se ad ogni cerimonia di chiusura si proclama così, ma è pur sempre una gran bella cosa.

Michael Phelps, nuotatore statunitense che a 27 anni si è aggiudicato 22 medaglie olimpiche, come nessun altro al mondo, esalta o umilia lo sport che pratica?

Phelps è indubbiamente un campione, e un campione in genere esalta lo sport in cui primeggia. Però attenzione: Phelps vince (18 gli ori) in uno sport che non riguarda un continente intero, l’Africa, povera d’acqua e con mari e laghi e fiumi infidi, e che in un po’ in tutto il mondo pone a chi ha la pelle scura problemi di accesso alle piscine, basilari per l’agonismo; Phelps vince in tre edizioni consecutive dei Giochi, alla faccia del ricambio in tanti sport, tipo corsa veloce; Phelps vince su distanze assortite, dai 100 ai 400 metri, alla faccia della specializzazione; Phelps vince praticando quattro stili e primeggiando in tre (crawl, dorso e delfino), come se nell’atletica uno dominasse sprint, mezzofondo e salti; Phelps non ha piedi enormi tipo pinne e manone tipo pale (casomai, braccia extralunghe).

Phelps è grandissimo nel nuoto, si capisce. Ma il nuoto non è uno sport universale, come l’atletica nata con il primo uomo - che doveva correre, saltare, scagliare pietre per sopravvivere – e coinvolgente tanto della nostra vita spicciola, quando corriamo per non perdere l’autobus o saltiamo per evitare una pozzanghera. Quanti sono gli umani che praticano il nuoto in situazioni legate alla loro pratica quotidiana di vita?

Il nuoto non è neppure certo di avere identificato definitivamente lo stile ideale per avanzare il più rapidamente possibile.
Grandissimo sport generatore di salute, nonostante tutto é ancora di élite. E quanto al nuoto di gran fondo, in acque aperte, sta al nuoto di piscina come i volteggi circensi dei trapezisti alla ginnastica artistica.

Phelps segna i limiti del nuoto intanto che lo fa suo reame. Più che una tesi, ci sembra una constatazione.

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