In questo primo blocco di documenti desecretati (che sono una piccola parte dell’archivio delle Commissioni parlamentari “Alpi-Hrovatin” e delle ultime tre sul ciclo dei rifiuti) non ci sono grossi colpi di scena. Ci sono tante notizie, diversi nuovi spunti, anche qualche sorpresa. Ma non “la svolta”. È anche vero che siamo solo all’inizio. È tanto, davvero tanto, il materiale da rendere pubblico. Siamo appena all’antipasto.
Qualche considerazione però la si può fare. La prima. Già a due soli mesi dall’omicidio Alpi-Hrovatin i servizi segreti danno una serie di indicazioni sul legame del duplice assassinio col traffico d’armi e con le scorie radioattive. Ci si chiede: perché siamo a scrivere oltre vent’anni dopo che quelle piste non sono state indagate a fondo né dalla Procura di Roma né dalla Commissione d’inchiesta? Com’è possibile che la “Alpi-Hrovatin”, nel 2006, abbia votato a maggioranza una relazione che andava in tutt’altra direzione? Anziché difendere ancora oggi il proprio operato, perché il presidente di quell’organismo parlamentare, Carlo Taormina, non ci spiega come ha fatto a non accorgersi che persino le relazioni delle Nazioni Unite avevano ampiamente documentato i traffici d’armi avvenuti fra il 1992 e il 1994, alcuni dei quali gestiti proprio dalle navi su cui indagava Ilaria Alpi nel suo ultimo viaggio. Relazioni pubblicate dall’Onu nel 2002 e nel 2003, ossia appena prima che cominciasse a operare la Commissione parlamentare.
Una seconda considerazione, immediata conseguenza della prima. Questo primo blocco di documenti fa crescere enormemente la curiosità di conoscere tutta quella parte di archivio della “Alpi-Hrovatin” che riguarda le “procedure interne” dello stesso organismo parlamentare: vorremmo conoscere chi ha indirizzato le indagini in una certa direzione invece che in un’altra, chi ha bloccato certe piste di approfondimento, chi ha fatto avere alla Commissione documenti e testimoni fuorvianti che ne hanno deviato le indagini. Ci sono tante cose da sapere, di ciò che è avvenuto all’interno di quella Commissione. E saranno probabilmente i documenti che riserveranno le maggiori sorprese.
Infine, una terza e ultima riflessione. Da questi primi faldoni emerge chiaramente che in quegli anni non c’era solo la guerra civile che opponeva i signori della guerra Ali Mahdi e Aidid per conquistare il Paese. C’era anche la guerra delle cordate italiane legate ai due warlord somali: una guerra sorda – e per certi aspetti sordida – combattuta a colpi di informative, dossier, testimonianze costruite ad arte. Raffinati ma squallidi ricatti incrociati, nel mezzo dei quali si sono trovati a fare la loro inchiesta Ilaria e Miran.
Non va dimenticato che dalle investigazioni di Ilaria Alpi nulla avevano da temere i signori della guerra somali (chi mai li avrebbe processati e condannati?), ma molto avevano da temere gli italiani che avevano appoggiato, armato, e fatto affari con loro.
In Italia stava finendo la Prima Repubblica, i vecchi padrini e padroni erano finiti nel fango, i partiti si disintegravano e la mafia. Uomini dei servizi, diplomazia, faccendieri, tangentari, mercanti d’armi, trafficanti di rifiuti, corruttori… insomma, tutta la pletora di personaggi che avevano lucrato sui rapporti con la Somalia e sulla mala-cooperazione erano rimasti senza garanzie e senza protettori.
E i somali lo sapevano, molto bene. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, in quel marzo 1994, si trovano al centro di questo fuoco incrociato tra le due fazioni «italo-somale». Nel Paese africano si sparano bombe e pallottole, in Italia informazioni e dossier. Nel nostro Paese Ilaria trova diverse di quelle informazioni e dossier, in Somalia perciò trova le pallottole.