Nell’ottobre del 2012, all’Università
di Melbourne, Australia, si
ritrovarono per un brindisi il
professor Richard Dowell, audiologo,
i chirurghi Brian Pyman e Robert
Webb, il professor Graeme Clark e il signor
Graham Carrick. Festeggiavano un loro incontro
avvenuto trent’anni prima al Royal
victorian eye and ear hospital. Un incontro
che oggi è storia.
Il signor Graham Carrick, 31 anni, era
entrato nella sala operatoria di quell’ospedale
completamente sordo. Qualunque
frastuono avesse intorno, da diciassette
anni Carrick viveva in un silenzio assoluto.
Nell’ottobre del 1982, dopo un intervento
di quattro ore e una stimolazione di quindici
minuti, sentì un “ding-dong”, il suono
di un campanello, e divenne il primo uomo
bionico. Un impianto cocleare sperimentale
gli aveva restituito la capacità di
percepire suoni, parole, musica portando
i messaggi sonori direttamente al suo nervo
acustico, e quindi al cervello. Oggi, trecentomila
persone odono grazie a impianti
cocleari enormemente più perfezionati
di quello che Graeme Clark, il vero pioniere
di questo tipo di interventi, era riuscito
a mettere a punto per il “paziente zero”
curato con la nuova tecnica.
Raccontata così, è la storia di un successo.
Ma bisogna subito aggiungere che
le cose non sono semplici come possono
sembrare in questo racconto. Quando, un
paio di settimane dopo l’intervento, viene
acceso l’impianto cocleare, il paziente è
solo all’inizio del cammino, soprattutto se
è sordo dalla nascita. Segue una lunga riabilitazione
con l’aiuto di personale specializzato
(audiologo, logopedista), un lavoro
impegnativo
che non sempre raggiunge i
risultati desiderabili: occorre una intelligente
collaborazione di tutte le persone
con cui il paziente entra in rapporto, a cominciare
dai parenti più stretti. Occorre
inoltre dire che non tutti i sordi profondi
sono curabili con un impianto cocleare e
che questi impianti non sono eterni: hanno
una vita prevista di circa 10 anni, anche
se poi il limite spesso viene superato
e quasi doppiato. I costi, infine, sono pesanti:
il dispositivo costa 20¬23 mila euro
tra parte esterna e parte interna, l’intervento
chirurgico che in Italia per ora è pagato
dal Sistema sanitario nazionale, all’estero
può costare da 75 a 125 mila dollari.
La buona notizia però è che il progresso è
continuo. Grazie all’esperienza clinica e a
una elettronica sempre più miniaturizzata
e potente, non passa anno senza che la
tecnologia faccia importanti passi avanti.
Non fidatevi invece delle promesse di soluzione
con cellule staminali: a oggi, non c’è
niente di serio, e invece girano i soliti venditori
di illusioni.
Il nostro udito percepisce suoni con
una frequenza che va da 20 a 20 mila Hz
(1 Hz = una vibrazione al secondo). Entro
questo spettro sonoro, il cervello distingue
circa 1.400 suoni diversi. Un impianto
cocleare lavora per bande di frequenze tra
100 e 8.000 Hz e ha al massimo 22 elettrodi
in contatto con il nervo acustico. L’abilità di distinguere i suoni “consegnati” al
nervo è, quindi, limitata e molto variabile da
persona a persona: arrivare a distinguere 250-
300 suoni dev’essere considerato un ottimo
risultato, e naturalmente è più facile raggiungerlo
nei bambini.
C’è una forte di erenza nell’abituarsi
all’impianto tra chi non ha mai udito e chi invece
l’udito lo ha perso. Nel primo caso, le difficoltà sono grandi. Per questo è fondamentale
scoprire la sordità dei bambini il più presto
possibile. Il linguaggio dei segni è uno strumento
importante per l’identità personale dei
sordi, ed è utile come ponte verso la conquista
del parlato, ma non è pensabile che un bambino
cresca vincolato alla necessità di vivere con
l’ausilio di interpreti. Possiamo considerare i
segni come una lingua vera e propria, tanto
che sembra collocata nelle stesse zone del cervello
destinate al linguaggio parlato, ma è pur
sempre un mezzo di comunicazione povero di
sfumature e di concetti, che tende a confinare
i “segnanti” in un loro mondo chiuso.
Su questo punto, esiste un annoso dibattito.
Il neurologo-scrittore Oliver Sacks, scomparso
di recente (1933¬2015), fu a ascinato
dalla “danza delle mani” con cui comunicavano
i sordi dell’isola di Martha’s Vineyard (Stati
Uniti, Massachusetts), dove i non udenti erano
una comunità numerosa perfettamente integrata
con gli udenti, e ci riferisce che anche
dopo il 1952, quando scomparve l’ultimo sordo
dell’isola, gli abitanti mantennero a lungo
l’uso dei segni. Non bisogna però che il giusto
e doveroso rispetto per questa lingua freni il ricorso
a una soluzione tecnologica che consente
una qualità della vita incomparabilmente
migliore e un perfetto inserimento nel contesto
sociale. Peraltro la conclusione a cui arrivò
Sacks è salomonica: «Nulla indica», scrive nel
saggio Vedere voci, «che l’uso dei segni inibisca
l’acquisizione della lingua vocale; piuttosto è
probabile il contrario». La lingua vocale rimane
dunque il traguardo a cui tendere.
L’opzione dell’impianto cocleare si pone
per la sordità totale o molto grave (oltre i 90-
100 decibel Hearing Level) e in tutti i casi in cui
le protesi tradizionali non abbiano avuto esito
soddisfacente nella comprensione del parlato. Per la ipoacusia media (40¬70 dB HL) o
lieve (20¬40 dB HL), esiste un’ampia o erta di
apparecchi acustici oggi molto sofisticati, con
amplificazioni regolabili in potenza e adattabili
nelle varie frequenze sonore da accrescere,
così da personalizzare il dispositivo su ogni
singola esigenza. Sono, inoltre, disponibili
protesi impiantabili dell’orecchio medio, nate
come sostituzione dell’apparecchio acustico,
nel caso che questo non sia indossabile per
malformazioni o infezioni croniche.
Il cattivo funzionamento dell’udito, in forma
più o meno grave, è un problema molto
di uso perché, con il passare degli anni, tutti
andiamo incontro a una naturale perdita di
sensibilità uditiva. Oggi, poi, per vari motivi
tra i quali spicca l’inquinamento sonoro, si registra
una anticipazione di questa perdita rispetto
al passato: talvolta, è avvertibile già sui
cinquant’anni, ma spesso non viene riconosciuta;
tra i 55 e i 65enni, solo un ipoudente su
cinque ammette quel disagio che porta a parlare
a voce più alta e ad alzare il volume della
radio e della Tv. Il confine oltre il quale una
persona può essere definita ipoudente corrisponde
a una perdita di circa un quarto della
capacità uditiva.
In Italia, il 10 per cento della popolazione
so re per una riduzione dell’udito: stiamo
parlando di sei milioni di individui, con una
tendenza all’aumento del 6 per cento l’anno.
Nel nostro Paese, 45 mila persone sono completamente
sorde e coloro che so rono di una
sordità parziale sono almeno mezzo milione.
Su 100 invalidità permanenti, venticinque sono
dovute a gravi disturbi dell’udito. La sordità
infantile è statisticamente un problema rilevante:
i casi sono di uno-due su mille nati.
Secondo uno studio epidemiologico di Fortnum
e Davis, nel 40 per cento dei casi le cause
sono genetiche; altrettanto numerose sono le
sordità di cui si ignora la causa. Le sordità prenatali
insorte durante la gestazione per infezioni
o intossicazioni della madre sono il 4 per
cento; quelle perinatali il 7 per cento (insorgono
al momento della nascita e sono dovute a
infezioni, ittero patologico – la bilirubina è tossica
per la coclea del neonato –, prematurità
e ipossia, in quanto le cellule cigliate della coclea,
quelle che trasformano la pressione meccanica
dei suoni in segnali elettrici che il nervo
acustico porta al cervello, sono estremamente
sensibili all’abbassamento della pressione di
ossigeno nel sangue). Il 6 per cento delle sordità
infantili, infine, sono successive alla nascita,
e dovute a infezioni batteriche da Haemophilus
influenzae, Neissera meningitides, Streptococcus
pneumoniae, infezioni virali di vario
tipo, o a tossicosi legate all’uso di antibiotici
amino glicosidici, salicilati o altri farmaci.
Una frontiera non ancora pienamente conquistata
è l’”impianto del tronco cerebrale”,
che consiste in pratica nel “saltare” il nervo
acustico per andare a inserire i segnali elettrici
corrispondenti ai suoni in una posizione più
avanzata. L’impianto uditivo del tronco cerebrale
è una modalità di riabilitazione dell’udito
le cui indicazioni sono rare. Si tratta delle
situazioni dove l’impianto cocleare è impossibile
oppure risulta ine¤ cace come nel caso di
presenza di tumori delle vie uditive, ossificazioni
cocleari e malformazioni della coclea e
del nervo uditivo. La principale è la neurofibromatosi di tipo 2.
L’impianto del tronco cerebrale viene preso
in considerazione dopo una valutazione
fatta da specialisti delle varie discipline implicate:
neurologia, audiologia, chirurgia. Il posizionamento
del portaelettrodi, la cui configurazione è adattata all’anatomia del tronco
cerebrale, è eseguito durante un intervento
da parte di un’équipe oto-neuro-chirurgica. I
risultati ottenuti dal punto di vista funzionale
sono disuguali; nei casi migliori, infatti, si possono
anche raggiungere esiti analoghi a quelli
ottenuti con un impianto cocleare, ma sono
possibili anche fallimenti, come sempre capita
quando una tecnologia è ancora in parte
sperimentale.