Jovanotti sulla copertina del n. 48 di Famiglia Cristiana, in edicola e in parrocchia dal 26 novembre 2015.
Ci sono coppie di innamorati, genitori con i loro bambini, “ragazze magiche” che festeggiano l’addio al nubilato e gruppi di sessantenni che hanno dichiarato addio alla gioventù, ma solo per tornare bambini. C’è una mamma che, per tutto il concerto, spalle al palcoscenico, con gli occhi lucidi trasforma in un A te ogni singola parola di ogni singola canzone per la figlioletta, che la ascolta come si ascolta una fiaba. Come se fosse stata scritta per lei in quel preciso istante…
Al 105 Stadium di Rimini, dove Jovanotti ha inaugurato il tour “Lorenzo nei Palasport 2015/2016”, si è dato appuntamento un pezzo d’Italia, l’Italia vera, quella della gente normale che si inventa la vita giorno per giorno e che però non ha smesso di sognare, vuole continuare a credere nella bellezza e nutrire l’ambizione di essere, proprio per questo, “immortale”, come recita una delle canzoni più belle del doppio album Lorenzo 2015 CC..
Lorenzo, cosa ti passa per la testa quando ti presenti davanti a un pubblico che ha fatto delle tue canzoni la colonna sonora della sua vita?
«Mia moglie dice che non mi godo mai niente. E ha ragione: in me prevale sempre la voglia di meritarmi quello che ho conquistato, di trasformarlo in altri progetti. Mi inorgoglisce che la gente abbia scelto di venire ad ascoltarmi, ma alla fine cerco soltanto di fare il mio mestiere: essere un cantante pop che arriva al cuore. Quando esco davanti al pubblico, il mio primo pensiero è di lasciare un segno».
Proprio per l’importanza che assumono le tue canzoni, ti senti investito di una responsabilità sociale?
«Non sento una responsabilità maggiore di quella che ha qualsiasi uomo in ciò che fa. Confinerebbe con l’autocensura, pericolosa nel mondo della creatività. La responsabilità riguarda più il cittadino Cherubini che l’artista Jovanotti».
Ma le canzoni hanno il potere di cambiare la realtà?
«Hanno uno spazio importante nella vita delle persone; nel mio caso sono state utili ad acquisire coscienza di me come persona. Ho scoperto, ad esempio, che cos’era l’apartheid ascoltando musica, non un telegiornale. Ma oggi, che siamo immersi in un flusso costante di informazione, la canzone non ha più quel ruolo informativo».
«Non lasciare le tue labbra senza baci, stasera»: nelle tue canzoni è costante l’invito a vivere l’esistenza fino in fondo, al carpe diem…
«È vero, ma non sono così legato a questo tema: è una tendenza che si è rafforzata negli ultimi anni, in cui ho perso all’improvviso persone care… Quando si è giovani, non si contano i giorni che rimangono; quando invece vedi che il tempo sfugge, che qualcuno muore anche quando non ne aveva l’età, diventi più frenetico rispetto al consumo dei tuoi respiri. E non è necessariamente un bene. Tema centrale di questo ultimo disco sono le relazioni, ogni brano è rivolto a qualcuno, la prima persona resta in ombra… Ed è un passaggio significativo verso qualcosa di nuovo, che potrà avere uno sviluppo in futuro».
Questa apertura al “noi” è essenziale nella canzone Gli immortali, che non a caso è diventata anche un film che sarà trasmesso da Sky…
«Infatti utilizzo la prima persona plurale».
Mi sembra che tu abbia scritto la tua La storia siamo noi...
«Anche De Gregori lì usa il plurale, come Vasco in Siamo solo noi, come in We are the World. La storia siamo noi mi piace a tal punto che il paragone al momento mi sembra irriverente. Gli immortali è stata ispirata dall’affetto della gente, il cui sguardo riesco a volte a incrociare dal palco, facendole diventare persone. Mi viene da pensare che la ragione profonda di tutto questo mondo che ho costruito sia stata fare contenta mia mamma e “provare a interpretare i sogni di mio papà”… Papà si aspettava un percorso tradizionale: laurea, un bel posto in Vaticano, dove lavorava come impiegato… In realtà sapevo che, dentro di lui, era felice di ciò che facevo».
E tua moglie e tua figlia come vivono il tuo successo?
«Bisogna chiederlo a loro. Ho l’impressione che sia un bell’ingombro, un gigantesco peluche che invade la casa, una enorme giraffa rosa in salotto. Per mia moglie forse è meno invasivo, nella vita sociale di mia figlia pesa un po’ di più: a volte si lamenta di non essere considerata per quello che è, ma in quanto mia figlia…».
Jovanotti nello studio di registrazione di New York. Le foto del servizio sono di Michele Lugaresi.
Nelle tue canzoni sono disseminate tracce dell’esperienza del dolore, insieme al messaggio che non bisogna restarne irretiti.
«Non dobbiamo farlo diventare una condizione, come pure il contrario del dolore. Ho visto tanta gente trasformare la sofferenza in un pretesto per smettere di vivere. Per quanto possa chiamarmi Jovanotti e cantare le canzoni che canto, il senso del tragico è fondamentale nella mia vita. Quando ho perso il mio fratello maggiore, la colonna morale della famiglia, mi sono sentito come un tavolo senza una gamba, ho cominciato un lavoro interiore… Il dolore non va rimosso, va tenuto lì: è una novità, e le novità vanno accolte. Ho la fortuna di essere aiutato dalla forza catartica della musica».
È lo stesso atteggiamento che dobbiamo assumere dopo i fatti di Parigi?
«Prima di tutto c’è bisogno di una leadership dotata di una forte coscienza e di uno sguardo a lungo termine, che non strumentalizzi l’accaduto. Personalmente, sono convinto che si tratti di una storica questione di terribile, complessa e nuova criminalità organizzata, da non affrontare in chiave religiosa: non siamo dentro una scontro di civiltà o di religioni, non stiamo vivendo un conflitto che oppone noi cristiano-giudaici al mondo musulmano. Non è questa la via da intraprendere. I musulmani sono un miliardo e mezzo, non una setta. Mi rifiuto di credere che siano tutti assetati di sangue, sebbene ci sentiamo distanti da loro, da una cultura che assegna al proprio Libro fondamentale il ruolo di Codice civile e penale. Di certo, questi fatti devono rafforzare il nostro senso della comunità e spronarci a difendere le nostre conquiste, tra le quali una delle più importanti è la libertà di culto. Parigi non è una città, è un’invenzione; è frutto dell’intelligenza dell’uomo; è la possibilità di viaggiare fino a Capo Nord senza dogane, di studiare all’estero con Erasmus; è un simbolo di libertà, il contrario dell’integralismo: questo è il modello che dobbiamo imparare a difendere. Magari cercando di renderlo ancora più inclusivo».
Scrivi canzoni d’amore da più di vent’anni: dove trovi l’ispirazione?
«Uso una tecnica di visualizzazione. Mi chiedo: a chi sto cantando questa canzone, che cosa gli voglio comunicare? Immagino persone in carne e ossa. E poi penso che la musica possa migliorare la storia della gente, che sia una sorta di utile finzione. Nell’atto della scrittura mi piace ricuperare lo spirito delle Laudi del Duecento. Il Laudario di Cortona, la mia città, è uno dei più antichi d’Italia. Ecco, voglio che la canzone sia una lode, anche per esprimere una forma di resistenza a un mondo colmo di parole negative, governato da esaltazioni o all’opposto da insulti. Una canzone romantica ritaglia uno spazio di emozione e allegria. Mi piacciono le città dove si vedono le coppie che passeggiano, si baciano. Le mie canzoni sono degli innamorati che passeggiano in un viale alberato».
In fondo è coerente con la filosofia di Io penso positivo…
«Non è che io non pensi negativo, ma scelgo di cantare “Io penso positivo”. Perché mi viene meglio, perché la ritengo una sfida più avvincente, perché ci credo, e perché “Io penso negativo” lo dicono in molti».
In Sabato c’è un’efficace definizione dell’indole degli italiani: «Sembra tutto perduto e poi ci rialziamo».
«Siamo sempre al limite, e solo allora tiriamo fuori l’inventiva. L’esempio madre sono i Mondiali di Spagna dell’82. Quell’estate avevo 16 anni. Segna la fine degli anni di piombo: l’Italia sembrava spacciata, sporcata di sangue. Ricordo che mio padre tornava a casa con i vestiti impregnati dei gas lacrimogeni… Poi arrivò il Mondiale, e l’Italia seppe risorgere. Quell’estate me la porto nel cuore, è un pozzo inesauribile a cui continuo ad attingere. Questa è l’Italia, che non può mai rinunciare a cadere e a rialzarsi. Noi siamo un pontile nel Mediterraneo, per questo è assurdo qualsiasi atteggiamento nazionalista: non siamo una nazione, ma un popolo, che è molto di più di una nazione».