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lunedì 28 aprile 2025
 
Musica & fede
 

Luca Carboni: "In mare ricarico la mia spiritualità"

16/07/2018  A quasi 56 anni, ha firmato il tormentone dell’estate, La grande festa. Ma lui resta quello di sempre: il cantautore che, anche in un pezzo allegro, sa affrontare temi come il rapporto con i figli e con Dio

La voce di Luca Carboni al telefono giunge a tratti: «Scusami, puoi richiamarmi tra una decina di minuti? Sto guidando in un tratto dell’Appennino in cui il cellulare non prende bene. Sono andato a dare una mano a mio figlio che ha forato una gomma della sua auto subito dopo aver dato l’esame di maturità».

Puoi almeno dirmi com’è andato l’esame?

«Lui dice che è andato molto bene. Se passerà, diventerà perito agrario come me. Ma io dopo mi sono buttato sulla musica. Lui non credo proprio che seguirà la mia strada».

Una strada che a quasi 56 anni (li compirà il prossimo 12 ottobre) lo ha portato a essere il re di quest’estate musicale grazie al tormentone La grande festa che sta trainando alla grande l’ultimo disco Sputnik. Quando lo richiamiamo, gli chiediamo che ne pensa di quanto sta accadendo e lui, da persona schiva qual è, minimizza: «Re dell’estate mi sembra una definizione troppo impegnativa. Diciamo che mi fa molto piacere scoprire di essere ancora così ascoltato dopo così tanti anni di carriera».

Tanto più con una canzone in cui, a contrasto con una musica molto accattivante, compaiono parole che non fanno di certo parte del vocabolario dei tormentoni come “rabbia”, “morte”, “dolore”, “ingiustizia”, “bomba nucleare”...

«Sì, il mio gioco è stato proprio questo: costruire un brano marcatamente pop con un testo da cantautore. Del resto, io ho sempre amato gli opposti, come far seguire a un album acustico uno dominato dall’elettronica. Lo stesso titolo di questo disco, Sputnik, segue questa logica: è una parola dal suono duro, ma dal significato dolce, cioè “compagno di viaggio”: il mio desiderio è che questo album accompagni a lungo chi lo ascolta».

C’è un filo conduttore in molti dei pezzi di questo album: la paura di mostrarsi per come si è davvero. Un sentimento che tu hai descritto meglio di ogni altro negli anni ’80 nei ragazzi della tua generazione. Cosa è cambiato da allora?

«Noi e i giovani di oggi credo che siamo accomunati dal desiderio di essere liberi dalle ideologie. Noi volevamo lasciarci alle spalle gli anni di piombo, la guerra fredda e come loro prendere tutto con più leggerezza, che non significa superficialità. La differenza sta nel fatto che noi non avevamo tutte queste opportunità di essere connessi con il mondo. È una cosa bellissima, a patto che si eviti il rischio di trasformarsi in tanti piccoli pianeti isolati. Noi passavamo le giornate in strada e mi capitava di stare anche un’ora al telefono con la mia ragazza. Oggi invece quando rispondo al telefono mio figlio mi guarda stupito, perché lui praticamente usa solo i messaggi WhatsApp. Tutto è diventato più veloce e non so come questo si ripercuota, per esempio, nel modo di vivere l’amore».

Ma tu riesci a comprendere il mondo di tuo figlio?

«Non ne sono sicuro. Per esempio: io ascoltavo la musica nella mia cameretta, lui invece passa tantissimo tempo con le cuffie, per cui non so che cosa gli piace. Però mi ricordo che quando ero come lui ci tenevo tantissimo ad avere un mio mondo, staccato da quello dei miei genitori. Per cui, forte di quest’esperienza, cerco di non invadere il suo e aspetto i segnali che lui mi invia».

Una canzone di Sputnik, L’alba, inizia così: «Tu abbracciali i nostri figli che partono per il mondo. Devono andare via, vanno a sentire la vita fino in fondo». A chi ti rivolgi?

«A me stesso e ai genitori che come me vorrebbero far di tutto per tenere i figli vicini. E invece in un mondo sempre più globalizzato, dove l’idea che avevamo noi di trovare un lavoro sotto casa è un’utopia, bisogna spronarli a essere indipendenti, a buttarsi, a rischiare».

Per questo nuovo album hai scelto di collaborare con autori giovani come Calcutta e Le Gazzelle. Cosa ti accomuna a loro?

«Sono musicisti che, come me quando ho iniziato, tentano di prendere le distanze da un certo pop banale in voga in questi ultimi anni per cercare di affermare un loro punto di vista sul mondo. Hanno un’ingenuità, una purezza che mi piacciono».

In tante tue canzoni ricorre il mare. Cosa rappresenta per te?

«Non l’ho mai visto, nemmeno da ragazzino, come un posto in cui andare in vacanza e passare il tempo sotto l’ombrellone, ma sempre come una cattedrale, un luogo in cui ritemprare lo spirito. Ho una piccola barca con cui mi piace andare al largo e contemplare lo spettacolo che mi circonda: mi dà una carica fortissima. Ne parlo anche in una canzone di quest’ultimo disco, Prima di partire».

In una canzone di due anni fa, Luca lo stesso, cantavi: «C’è chi ama la sua terra, i suoi confini. Ed è così patriottico che sogna una patria senza vicini». Una sintesi perfetta di quanto stiamo vivendo oggi. Ma non credi che tutta questa ostilità verso chi cerca un futuro migliore in Europa nasca da paure fondate?

«No, se non in minima parte. I confini mentali sono i più duri da abbattere. Nei momenti di crisi, non solo economica, ma anche di valori come quello che stiamo vivendo, è più facile alimentare paure a cui non corrispondono minacce reali».

Una curiosità: è vero che hai mosso i primi passi nella musica in parrocchia?

«Da adolescente avevo fondato una band, i Teobaldi Rock. Nel mio quartiere a Bologna in quel periodo stavano costruendo una parrocchia, praticamente su una strada. Ricordo che il prefabbricato dove si celebrava la Messa e i fedeli erano separati dalle strisce pedonali. Comunque nel prefabbricato c’erano tutti gli strumenti, a parte la batteria che dovevamo portare noi. Il cappellano, che era un vero appassionato di musica, ci lasciava le chiavi e così, a patto che non facessimo troppo fracasso, potevamo suonare».

Ti ricordi come si chiamava il cappellano?

«Padre Felice. Proprio a partire da lui ho iniziato a ragionare attorno al concetto di felicità che poi è diventato fonte di ispirazione per tante mie canzoni ».

È vero che prima di salire sul palco ti fai il segno della croce?

«Sì, e poi prego lo Spirito Santo di aiutarmi a trovare le parole giuste».

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