Gli edifici della sede italiana dell’Agenzia europea spaziale sono circondati da ulivi, alberi dalle solidissime radici. Come a dire: va bene progettare viaggi che porteranno l’uomo sempre più lontano, ma sempre mantenendo i piedi per terra. E infatti così si presenta Luca Parmitano: «Io sono solo un pelato con il pizzetto come ce ne sono tanti. Il vero protagonista è lo spazio con tutti i suoi misteri ancora da scoprire ». È l’ultima occasione per incontrarlo perché poi, completata l’ultima fase di addestramento, il 20 luglio, in coincidenza con i 50 anni dallo sbarco sulla Luna, tornerà dopo sei anni nella stazione spaziale internazionale. In questo caso, però, lo farà – prima volta per un italiano – da comandante di una missione che ha scelto di chiamare Beyond, “Oltre”, perché il suo scopo principale sarà appunto quello di preparare il terreno ad avventure sempre più ambiziose, come il ritorno sulla Luna e l’approdo umano su Marte, previsto tra il 2030-2040.
Gli esperimenti che farete nella stazione orbitale che ricadute avranno sulla vita quotidiana di chi resta quaggiù?
«Molti esperimenti sulla fisiologia umana hanno ricadute sulla medicina. Alcuni riguardano l’apparato neurologico e neurovestibolare. La conoscenza che ne deriverà consentirà, per chi ha, per esempio, malattie o incidenti che compromettono l’equilibrio, di creare nuove medicine o protesi e comunque soluzioni per migliorare la qualità della vita. Poi potremo sperimentare l’efficacia di nuovi farmaci, convalidare nuovi materiali e nuovi combustibili meno nocivi per l’ambiente».
In altri test, invece, verificherà sul suo corpo la resistenza alle radiazioni con lo scopo di ac-quisire informazioni in vista di future missioni che prevedano una maggiore durata e una maggiore distanza dalla Terra, come un viaggio verso Marte. In pratica farà da cavia?
«Sì, tutti gli esperimenti di fisiologia saranno fatti sugli astronauti che di fatto raccolgono i dati sul proprio corpo. Per quanto riguarda le radiazioni, va fatta una precisazione: uscendo fuori dall’atmosfera terrestre, si è naturalmente più esposti a esse. Questi studi vanno avanti dai primi viaggi spaziali e ci consentono di capire come proteggere gli uomini che in futuro andranno più lontano e fare in modo che una volta arrivati alla loro destinazione siano in grado di operare in sicurezza».
Farà altre passeggiate spaziali come nel 2013. Con quali obiettivi?
«Io e il mio equipaggio siamo stati addestrati per attività extraveicolari fra le più complesse nella storia dell’esplorazione spaziale. Uno dei miei compiti più importanti includerà interventi di manutenzione e aggiornamento di un esperimento, Ams, installato all’esterno della stazione, per la ricerca di antimateria e di materia oscura. Con operazioni che qui sarebbero banali e che invece lassù non sono mai state fatte, come svitare dei bulloni evitando che si disperdano nello spazio o tagliare con una tronchesina dei tubi per installare una nuova pompa di raffreddamento».
Durante la missione del 2013, una delle passeggiate è stata bruscamente interrotta perché è entrata dell’acqua nel casco. Ha provato paura in quei momenti? E in generale che rapporto ha un astronauta con questo sentimento?
«Il coraggio non è l’assenza della paura, ma la gestione degli effetti che ne derivano, in modo da poter continuare a operare anche in momenti di pericolo o emergenza. È grazie all’addestramento che chi lavora in ambienti operativi gestisce la paura: è l’equivalente della conoscenza. La paura deriva dall’ignoranza: chi più studia, più conosce, meno paure avrà».
Il suo equipaggio sarà composto da americani e russi. Dal 2013 i rapporti tra i due Paesi si sono deteriorati. Come si rapporterà a loro in qualità di comandante?
«A bordo della Stazione non ci sono Paesi, ma individui, o ancora meglio membri di un equipaggio. Queste persone si addestrano insieme per anni, imparando a dipendere l’uno dall’altro, anche in situazioni di pericolo, a darsi delle capacità altrui con la propria vita. Siamo uniti da un grande sogno e da un unico obiettivo: non c’è alcun bisogno di preoccuparsi del retaggio culturale, della provenienza o della bandiera sulla spalla sinistra. Sono tutte cose che, figurativamente, vengono lasciate sulla Terra».
Dalla Stazione spaziale si vedono i cambiamenti climatici?
«Assolutamente sì. Si vedono bene gli effetti devastanti sull’ambiente di uragani e alluvioni. Ed è inevitabile pensare che l’aumento della frequenza dell’intensità di questi eventi sia dovuto a un incremento dell’anidride carbonica immessa nell’atmosfera causato interamente dall’attività umana. Sono padre di due bambine e credo nel futuro: dobbiamo unirci per combattere questo nemico globale».
Però, dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump in giù, molte persone ancora negano l’esistenza di questa correlazione...
«Non posso farci niente. Ripeto: visti dallo spazio, i cambiamenti sono chiarissimi. E spaventano».
Da bambino ci sono stati cartoni animati, fumetti, film o libri che hanno alimentato la sua passione per l’esplorazione spaziale?
«Certamente: come tutti i bambini della mia generazione guardavo molti cartoni animati giapponesi, che spesso mostravano mondi lontani. I fumetti mi fanno tuttora compagnia, e nella preadolescenza ho letto quasi tutto Asimov. In seguito, film come Apollo 13 o la miniserie From the Earth to the Moon hanno continuato a entusiasmarmi anche da adulto».
Jeff Bezos, il capo di Amazon, ha annunciato che nel 2024 intende portare l’uomo sulla Luna con una sua navicella. Nel futuro il nostro satellite si trasformerà in una località turistica?
«Non sono certo in grado di prevedere il futuro, ma mi piace ripetere la frase di un personaggio dei fumetti che leggevo da bambino: “Se una cosa è pensabile è anche possibile”. Questo non vuol dire che sia anche praticabile: certamente passeranno molti anni prima che un progetto come questo possa diventare realtà».
Osservando la Terra e le stelle dallo spazio, ci si sente più vicini a Dio?
«Quando parlo in pubblico cerco di rivolgermi sempre a tutti, a chi ha fede come a chi non ce l’ha, per cui non faccio mai riferimento a quest’aspetto. Una cosa però posso dirla: la ricerca della dimensione divina per me non sta nell’infinitamente grande, ma nell’introspezione, cioè nell’infinitamente piccolo».
Foto di Manuel Pedoussaut Zetapress Nasa