In questa storia ci sono dei numeri importanti. Il primo è l’8. Non indica una quantità, ma una tortura usata in Eritrea: «Nella posizione dell’otto», spiega il sedicenne Redae, «il torturato viene messo a faccia in giù sotto il sole cocente, mani e piedi legati dietro alla schiena. Può durare anche tre giorni e intanto ti colpiscono sotto i piedi con un bastone sottile di una pianta chiamata koba».
Dejen è un sopravvissuto al Mediterraneo e parla in uno dei centri di Milano in cui i profughi si fermano per qualche giorno prima di ripartire per il Nord Europa. La pratica dell’otto – il nome italiano indica il nostro legame con l’ex colonia – è confermata anche dal rapporto della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui diritti umani in Eritrea, presentato l’8 giugno 2015 a Ginevra. Non lascia spazio a dubbi sul regime di Isaias Aferwerki, sempre al potere dal 1991, all’epoca dell’indipendenza con l’Etiopia.
«Il governo eritreo», scrivono i commissari Onu, «è responsabile della sistematica e grave violazione dei diritti umani. Alcune potrebbero essere definite crimini contro l’umanità». Hanno raccolto testimonianze su esecuzioni extragiudiziarie, schiavitù sessuale e lavoro forzato. E sul servizio militare permanente che riguarda tutti i ragazzi eritrei e le ragazze dai 16 anni in su: ti arruoli e ne esci vecchio. Nel mezzo finisci a lavorare gratis nelle miniere di Stato, magari facendo parte del pacchetto venduto alle compagnie estere – prima soprattutto canadesi, ora spesso cinesi – con cui il governo fa affari.
Per motivare il servizio militare a vita, il pretesto è il precedente conflitto al confine con l’Etiopia, lo stesso usato per militarizzare il Paese e sospendere ogni forma di democrazia: la Costituzione non è in vigore; radio, televisioni e giornali liberi non esistono; ad Asmara hanno chiuso persino l’università.
Profughi eritrei. In copertina: i Commissari Onu (ora posti sotto protezione) che hanno redatto il Rapporto sulle violazioni dei diritti umani in Eritrea.
"L'Eritrea è una prigione a cielo aperto"
Redae continua: «L’Eritrea è una prigione a cielo aperto, a scuola chiedono ai bambini di denunciare i genitori». Ancora una volta i commissari dell’Onu confermano (dopo la diffusione dell’inchiesta sono stati messi sotto protezione): «Gli eritrei non sono governati dalla legge, ma dalla paura. Le informazioni raccolte attraverso un sistema di controllo pervasivo sono usate in modo assolutamente arbitrario per tenere la popolazione in uno stato di ansia perenne», si legge nel rapporto.
Nel centro profughi di Milano, accanto a Redae, sono seduti Merhawi e Aster con il loro piccolo di 6 mesi: «Ti ha spiegato perché scappiamo», dicono indicando l’adolescente. E arriviamo al secondo numero: 5.000. Secondo l’Onu sono gli eritrei che scappano ogni mese dal loro Paese, 305 mila in dieci anni, il 5% della popolazione. Dice Redae: «Conoscevo il rischio, il mio vicino di casa è affogato nel Mediterraneo, ma sono partito perché non avevo futuro, sarei finito nell’esercito a vita».
Gli eritrei sbarcati in Italia sono stati 34 mila, nei primi sei mesi del 2015 hanno superato i siriani, diventando la prima nazionalità con 18.676 profughi.
Il giornalista Vittorio Longhi, uno dei tre firmatari della petizione insieme a don Mussie Zerai e all'avvocato Anton Giulio Lana, durante la sua visita in Eritrea, nel 2014. Nella foto si trova a Massawa.
"Per fermare l’esodo dall’Eritrea non servono altri soldi, ma democrazia e libertà"
Arriviamo al terzo numero, quello più problematico: 312. Sono i milioni di euro che la Commissione Europea sta decidendo di dare al regime eritreo da ora al 2020. Un pacchetto di aiuti allo sviluppo senza chiedere nulla in cambio quanto a libertà fondamentali.
«Una decisione sbalorditiva» per Reporters sans frontières. Don Mussie Zerai, sacerdote eritreo candidato al Nobel per la Pace e presidente dell’Agenzia Habeshia, il giornalista Vittorio Longhi e l’avvocato Anton Giulio Lana dell’associazione Legalità e Giustizia hanno lanciato una petizione all’Ue, tramite la piattaforma Change.org. Chiedono di condizionare gli aiuti a reali passi verso la democrazia e in particolare: “1) Libertà per tutti quelli che sono detenuti in modo arbitrario, tra cui dissidenti e giornalisti; 2) libertà di espressione e di associazione; 3) elezioni libere e democratiche con un sistema multipartitico; 4) fine del servizio militare a tempo indeterminato; 5) fine di ogni forma di lavoro forzato e di trattamenti abusivi, innanzitutto la tortura».
Vittorio Longhi spiega: «Con gli aiuti l’Ue spera di fermare i flussi di profughi. Ci sono due rischi: da un lato si induce l’idea che gli eritrei siano migranti economici, quando invece le Nazioni Unite dicono chiaramente che si tratta di rifugiati politici; dall’altro, si danno soldi direttamente al regime da cui queste persone scappano. Non ci sarà alcun controllo sul reale utilizzo, le organizzazioni internazionali (la stessa Commissione Onu) non possono entrare in Eritrea e le Ong sono state tutte allontanate dal paese nel 2006».
Per Vittorio Longhi l’Eritrea è la terra di suo padre e di suo nonno, omonimo, attivista dell’indipendenza dell’Eritrea ucciso dagli Shifta (pro-Etiopia) nel 1950. È riuscito a visitare il Paese nel 2014, una decisione presa dopo il naufragio del 3 ottobre. Racconta: «La repressione e il terrore sono silenziosi, nessuno ne parla nei caffè; non hai la percezione della brutalità del regime, ma piuttosto del controllo totale. Una volta che ascolti le persone, però, incontri un’intera generazione che si sente intrappolata, senza libertà e senza prospettive per il futuro. La maggior parte dei giovani non tenta neanche più di cambiare le cose, pensa solo a scappare». Come dice la petizione che ha lanciato con don Mussie e l’avvocato Lana, «per fermare l’esodo dall’Eritrea non servono altri soldi, ma democrazia e libertà».
Per sottoscrivere la petizione: https://www.change.org/p/migranti-l-ue-non-dia-soldi-alla-dittatura-eritrea