L'ALFABETO DELL'ETICA
11. Utopia
Un alfabeto dell'etica contemporanea non può non misurarsi con la questione dell'utopia. La serie - un'indagine
sulle parole e i concetti da riscoprire per orientarsi di fronte alle
sfide del nostro tempo - è stata inaugurata dalla conversazione
con Laura Boella sull'immaginazione come facoltà morale ed è continuata
con l'intervista a Richard Sennett sulla collaborazione quale modalità
vincente della convivenza. Poi ha offerto il resoconto della lezione del
Dalai Lama sull'"egoismo saggio" e l'intervista a Marc Augé, che
identificava nella conoscenza la vocazione più alta dell'uomo. Edgar
Morin ha indagato il significato di sviluppo; Roberto Mordacci quello di
rispetto; Gabriella Turnaturi quello di vergogna. Gianfranco Marrone
aveva svolto uno studio non scontato sulla stupidità. Massimo Recalcati aveva proposto una nuova idea di paternità nell'epoca della morte del padre. Michael Sandel aveva mostrato come la logica del denaro fosse diventata pervasiva della nostra esperienza.
"Che sia possibile un insieme di gesti quotidiani
capaci di opporsi alla degenerazione delle condizioni economiche e ambientali,
senza assolutismi, senza fanatismi, senza sospette passioni viscerali,
è l'incredibile ricchezza di cui forse per la prima volta disponiamo in modo così completo".
(Luigi Zoja, Utopie minimaliste)
Non è semplice la sfida che è
stata data in sorte agli uomini e alle donne che vivono l’inizio
del XXI secolo. La nostra cultura è condizionata anzitutto
dall’essere erede del passato prossimo, quel Novecento che è stato
scandito dall’affermarsi di alcune grandiose ideologie e dal loro
dispiegarsi. Sappiamo bene – per esperienza diretta o per la
testimonianza dei nostri avi – quali effetti nefasti e devastanti
abbiano sortito le utopie che hanno entusiasmato e fatto proseliti
fra le vecchie generazioni. Il fallimento e gli orrori provocati del
nazismo e dal comunismo ci hanno lasciati disillusi e disincantati
rispetto a qualsiasi credo, orfani di un’ideologia plausibile. Si è
fatto strada il convincimento che sia preferibile, se non
intellettualmente onesto e moralmente doveroso, vivere senza
ideologie, senza utopie.
"Beato il Paese che non ha bisogno di
eroi", faceva dire a Galileo Bertolt Brecht. Tale disaffezione
rispetto all’utopia e all’ideologia ha però di fatto consegnato
le nostre società al neoliberismo e al consumismo, a tutti gli
effetti una nuova fede che proclama il dogma del profitto e
dell’avere come diritto e fonte di felicità. Un sogno di breve
durata, questo, che le ricorrenti crisi economiche hanno provveduto a
demolire.
Che fare, dunque? Assumendo la
categoria dell’utopia come criterio di riferimento, possiamo dire
che noi contemporanei ci troviamo stretti fra il fallimento e
l’esaurimento delle utopie del Novecento e la constatazione che una
rinuncia totale e assoluta ad esse non porta a nulla, solo a
quell’utopia mascherata che è il liberismo consumista. Come uscire
da questa aporia, esistenziale e culturale? E immaginabile una terza
via all’utopia? Tornando alla citazione di Bertolt Brecht: è immaginabile un mondo più desiderabile anche senza eroi, destinati a rovesciarsi in modelli negativi?
All’interrogativo sembra
rispondere il testo di uno degli psicoanalisti che, da tempo, tentano
di decifrare le dinamiche profonde della nostra società e di
individuare strade praticabili per un rinnovamento. Dopo Il gesto
di Ettore, Paranoia (entrambi Bollati Boringhieri) e La
morte del prossimo (Einaudi), acuta analisi di come l’altro
scompaia sempre di più dall’orizzonte dell’io, Luigi Zoja ha
pubblicato Utopie minimaliste (Chiarelettere): un sostantivo e
un aggettivo che, accostati, aprono suggestivi scenari di
discussione.
Una classica iconografia su Che Guevara.
Partiamo dalle utopie
massimaliste, dalle ideologie totalitarie che hanno dominato il XXI
secolo. Il loro fallimento è un drammatico dato storico. A che cosa
va attribuito? Qual è la ragione della loro degenerazione?
Ho cercato di indicarla nel capitolo
di Utopie minimaliste dedicato a Che Guevara, l’unica
persona reale esaminata a fondo nel saggio, anche in maniera
provocatoria, dato che è un personaggio molto amato, di moda
soprattutto fra le giovani generazioni, che paradossalmente si è
trasformato in un inconscio fautore di processi commerciali, essendo
diventato un’icona commerciale. Il problema di Che Guevara è
quello che nella psicoanalisi si chiama un atteggiamento
narcisistico. Tutta la generazione dei marxisti pretendeva di attuare
i suoi progetti immediatamente: in questo avverbio è,
appunto, contenuto più di un problema e soprattutto una forte
dose di narcisismo. Il massimalismo corrisponde nei fatti a una
impazienza, a una convinzione che qualunque mezzo è
lecito e utile per ottenere l’obiettivo prefissato, a una
giustificazione dei mezzi in nome del fine. In realtà, quello che
inseguivano i paladini di queste ideologie era una liberazione
personale; il loro comportamento celava un aspetto terapeutico
inconscio, a volte persino cosciente: Che Guevara ha
sostenuto in diverse occasioni che non solo era consapevole, ma
addirittuera desiderava andare incontro alla propria morte. E’
giusto? La morte degli altri è sempre ingiusta, ma non lo è anche
il volere la propria, pur di vivere una sensazione inebriante? E
intanto girava il mondo, amava le donne, faceva figli… Si può dire
di amare il popolo, quando si è già deciso di abbandonare i propri
figli? Va riconosciuta una componente fortissima di innamoramento del
proprio sogno e di indisponibilità a verificarne la fattibilità.
Storicamente è accaduto che ogni qual volta l’utopia non era
realizzabile nei termini e nei tempi stabiliti, si inasprivano i
mezzi, prima minacciando chi la ostacolava, poi mettendolo in galera,
infine eliminandolo…
L’impazienza dell’utopista
massimalista – ci insegna la storia – è sempre connessa al
ricorso alla violenza…
Esattamente. E ciò accade per il
rifiuto di confrontarsi con la realtà, per l’incapacità di capire
e accettare che le trasformazioni richiedono tempo, passaggi,
pazienza. Negli ultimi anni ho lavorato spesso in Argentina e, da
fonti dirette, ho appurato che l’amore per il Che si è molto
raffreddato. Lo stesso ragionamento possiamo svilupparlo in relazione
a un personaggio italiano, Pietro Ingrao. Consideriamo il suo bel
libro di memorie Volevo la luna. Non è, questa
espressione, una meraviglioso lapsus? Una confessione involontaria?
Ingrao racconta che, quand’era bambino, a chi gli chiedeva che cosa
desiderasse, rispondeva che voleva la luna e spiega che, una volta
diventato adulto, quello è rimasto il suo sogno. Ora, abbiamo
bisogno di persone con forti ideali e coraggiose, ma l’esperienza
ha dimostrato che non è questa la via più efficace per difendere le
aspirazioni degli sfortunati, degli svantaggiati, dei lavoratori.
Ognuno ha il diritto di volere la luna per sé: ma in virtù di
che cosa ci si arroga il diritto di pretendere anche per loro la
luna? Va sempre ricordato che negli anni Sessanta e Settanta, quando
si diffuse una cultura rivoluzionaria, l’Europa e il Nord America
stavano conseguendo il massimo di uguaglianza sociale mai raggiunta
nella storia. Eppure il massimalismo urlava che bisognava andare
oltre, accelerare il processo storico, pretendere di più… L’Italia
è stato l’unico Paese in cui il movimento progressista è stato
monopolizzato dai marxisti e dai massimalisti. Con il risultato che
il livello di disuguaglianza sociale non è mai stato così alto come
oggi.
Lei cita varie e autorevoli
ricerche a suffragio di questa affermazione, i cui effetti, peraltro,
sono sotto gli occhi di chiunque. E’ lei stesso a rilevare,
tuttavia, come, di fronte all’acuirsi delle disuguaglianze e delle
ingiustizie sociali ed economiche, né le classi colte né quelle
direttamente toccate si facciano promotrici di rivolte. Nessuno
scende in piazza, se non per qualche protesta estemporanea.
E’ il più grande mistero dei
nostri tempi. Dalla generazione impegnata, quella che, negli Anni
Sessanta e Settanta, era animata, magari ingenuamente, da grandi
ideali, siamo passati alla generazione indifferente, preda del
consumismo. Si tratta di una generazione senza utopie o post-utopica.
Se vivere ispirati da utopie
massimaliste non ha prodotto risultati apprezzabili, anche vivere
senza utopie, quindi, sembra non sortire effetti positivi. Anzi,
l’uomo che rinuncia all’utopia, lei dice, si espone a una
condizione molto insidiosa, l’assuefazione al male, la
rassegnazione all’ingiustizia.
In una società senza utopie prevale
il cinismo. Lo possiamo verificare in relazione al fenomeno del
berlusconismo, che non è stato soltanto il tentativo di sdoganare
l’imprenditore come eroe moderno – fatto comprensibile avvenuto
anche in altri Paesi – ma anche l’accettazione di una serie di
“violazioni” della morale, in ambito economico come personale;
accettazione che risulta paradossale in una cultura, come quella
italiana, che si connotava per il suo idealismo, la tensione a valori
puri, la presenza della cultura cattolica… La tolleranza verso
certi comportamenti è spiegabile sono come frutto di una situazione
post-ideologica, post-utopica.
Il libro di Luigi Zoja.
Ne possiamo dedurre che
l’individuo e le comunità hanno bisogno di utopie, per crescere
sani?
Sì, purché non si ricada
nell’utopia massimalista, ma si abbracci l’utopia minimalista.
Quando il sogno è grandioso, il pericolo è in agguato: abbiamo
visto ragazzi all’origine puri e santi che, a un certo punto, hanno
preso in mano la pistola. Erano troppo innamorati di sé, anzi
del proprio mito. Quei ragazzi non hanno avuto il coraggio e la
saggezza dell’utopia minimalista, cioè costruttiva, concreta e
paziente. Un’utopia capace di rispettare l’estrema complessità
della realtà, che affronta e smonta le ingiustizie passo dopo passo,
che riconosce finalmente l’urgenza della tematica ambientale…
Proviamo a elaborare una sorta di
“critica dell’utopia minimalista”? Quali sono i suoi elementi
costitutivi?
Pone al suo centro la giustizia, da
intendere in senso sociale ed economico, certo, ma non esclusivamente
in un’accezione antropocentrica. E’ finito il tempo in cui l’uomo
pensava di disporre della realtà, che tutto fosse al suo servizio.
Alcuni Paesi sudamericani hanno introdotto nella Costituzione il
principio secondo cui la Terra non è solo oggetto, ma anche
soggetto di diritto. Qualcuno obbietterà che è irrealizzabile.
Ma anche nella nostra Costituzione sono enunciati principi non
realizzati, ma non per questo meno validi, a partire dal primo
articolo, dove si proclama il diritto al lavoro. L’utopia
minimalista si sforza di offrire risposte quotidiane, praticabili,
visibili in un raggio d’azione che investe le relazioni sociali,
economiche, con l’ambiente. Acquistare la frutta dal contadino che
conosciamo è un atto di utopia minimalista: privilegia il rapporto
umano diretto – l’impersonalità è sempre un fattore del male -,
non inquina, taglia fuori l’intermediazione con tutti i rischi di
corruzione che implica… Mi piace citare l’esempio del turista in
Messico che può scegliere fra la spremuta d’arancia preparata dal
contadino e la Coca cola: chi pratica l’utopia minimalista
preferirà rivolgersi al banchetto del contadino che alla
multinazionale…
Lei scrive che l’utopia
minimalista è un percorso individuale di maturazione e crescita,
muove il pensiero individuale piuttosto che le masse.
E’ necessario confrontarsi con se
stessi, non, come accadde con i giovani del ’68, scendere in piazza
per godere di un’ebbrezza, vivere una bella avventura, per poi
tornarsene a casa la sera con le macchine… Aveva ragione Pasolini,
allora: i poliziotti a cui avevano tirato le pietre erano i veri
proletari! L’utopia minimalista deve diventare uno stile di vita
quotidiano, cosa che si sta verificando con quella che io chiamo la
“generazione critica”: dopo la generazione impegnata e quella
indifferente, si sta facendo spazio una minoranza di giovani che, per
dirla con un’immagine simbolica, usa la bicicletta anche se ha i
soldi per l’auto. D’altra parte, dovremmo tenere a mente che la
generazione impegnata rappresentava il 10 per cento dei giovani –
come aveva compreso Walter Tobagi, suggerendo che era molto rumorosa
e perciò sopravvalutata. Ne è prova il fatto che, esaurita quella
spinta, non ha ceduto il testimone a una generazione successiva, ma
ha lasciato campo aperto al berlusconismo. La generazione critica che
sta germogliando oggi, proviene in larga parte dal ceto medio e
rappresenta ancora una minoranza, ma nutrita da una percentuale
maggiore di giovani, quantificabile intorno al 20-30 per cento. Si
moltiplicano i casi di giovani che compiono, anche con coraggio,
scelte di utopia minimalista. So di molti ragazzi con un’alta
istruzione che, dopo aver lavorato in istituti finanziari, hanno
rinunciato a uno stipendio ricco per mettere la loro competenza a
disposizione di associazioni, Ong, movimenti sociali.
Altro tratto costitutivo
dell’utopia minimalista è la capacità di fare autocritica.
E’ la conditio sine qua non. Se si
ricade nei vecchi errori, si è preda della paranoia, che non è solo
una sindrome clinica, ma un atteggiamento universale e potenziale,
che può venire rafforzato da certi messaggi politici semplificatori:
tutto il male è la borghesia, il capitale, eccetera. L’utopista
minimalista non demonizza mai chi la pensa diversamente, ma si
confronta, dialoga, cerca mediazioni.
L'annuncio dell'assassinio di Olof Palme di un giornale svedese.
In contrapposizione a Che
Guevara, lei indica come modello positivo dell’utopia che sa fare
scelte progressive e concrete, misurandosi con la realtà, Olof
Palme.
Anche il premier svedese, come
l’argentino, morì colpito da arma da fuoco. Era il primo ministro
di un Paese importante, fautore di una via di mezzo, una Terza via;
uno dei pochi occidentali che non era né filocomunista né prono
alla cultura americana. Aveva scelto la politica delle riforme
quotidiane, dell’avanzamento passo dopo passo. E’ significativo
che la memoria collettiva ricordi Che Guevara, eroe del’utopia
massimalista che poco incise sulla realtà, e abbia pressoché
dimenticato Olof Palme, eroe dell’utopia minimalista, che con le
sue riforme graduali ha straformato una società, fino a ottenere i
più alti livelli di uguaglianza ed equilibrio sociale mai raggiunti.
In generale le società scandinave hanno saputo svilupparsi sapendo
essere al tempo stesso fra le più efficienti a livello economico e
le più giuste nella distribuzione della ricchezza. Due primati
raggiunti in contemporanea, mentre la cultura liberista li colloca
agli antipodi.
Lei indica esplicitamente la
socialdemocrazia come la forma politica più atta a realizzare
l’utopia minimalista.
E’ una modello che procede per
riforme, senza mai interromperle. Gli esempi migliori negli anni
recenti li abbiamo visti in Sudamerica. In Brasile, ad esempio - un
Paese immenso segnato da profondi squilibri - un Governo
socialdemocratico ha favorito consistenti spostamenti di ricchezza,
posto le condizioni per la formazione di un nuovo ceto medio, dato
stabilità sociale. L’attenzione fondamentale della
socialdemocrazia è, o dovrebbe essere, sulla giustizia sociale, sul
tentativo di offrire opportunità a chi non ne ha. Possiamo
rintracciare vari casi esemplari. Ad esempio la flexsecurity in
Danimarca, per cui lo Stato investe ingenti somme non per garantire
la cassa interazione a chi perde il lavoro, ma per creare scuole che
consentano al disoccupato di riqualificarsi e diventare appetibile
nel mercato. Un altro caso ancora è l’investimento nella ricerca e
nella creazione di tecnologie ecosostenibili e di energia
rinnovabile.
Lei dedica un lungo capitolo al
tema delle tasse. In che modo hanno a che fare con l’utopia
minimalista?
Nell’apparato burocratico dello
Stato manca la psicologia, il rispetto delle persone, al punto che
l’onnipotenza delle istituzioni ha provocato alcuni suicidi. Si
dovrebbe partire da una campagna informativa, per istruire sul fatto
che le tasse moderne sono l’erede naturale della cooperazione
sociale, essenziale per la vita di ogni comunità. Una volta ci si
consorziava per accaparrarsi e distribuire l’acqua; oggi, in una
società più complessa, non ha senso procedere all’abolizione
della proprietà privata, come suggerivano Marx o Rousseau, bensì
autorizzare il prelievo da parte dello Stato. Purtroppo è venuto
meno il rapporto di fiducia fra cittadino e Stato, e con quello, si è
perso il senso della tassa. Ho vissuto un paio d’anni alla
periferia di New York, dove si pagava una tassa piuttosto forte sulla
casa a sostegno della scuola locale. Era più gravosa di quella sul
reddito, dovuta alla Stato federale, e andava pagata a un ufficio
locale. Ogni cittadino poteva vedere con i propri occhi come venivano
utilizzati i soldi che versava, tanto che, quando si parlò di
aumentarla per acquistare nuovi computer, fu indetto un referendum.
Ancora, quando, dopo aver vissuto dieci anni in Svizzera, tornai in
Italia, mi vidi recapitare un assegno in franchi: era la parte di
bollo di circolazione di cui non avevo usufruito, essendomi
trasferito. Nulla a che vedere con l’impersonale burocrazia
italiana…
Quando recensii il suo La
morte del prossimo, avevo rilevato come alla sottile
analisi del deterioramento del nostro rapporto con gli altri, non
corrispondesse una proposta costruttiva. Possiamo considerare
l’utopia minimalista come la sua pars construens?
Spero di sì. Ho voluto evocare
un’immagine, che ogni individuo deve calare nella propria
esperienza personale e quotidiana, per maturare scelte concrete,
piccole ma significative. La generazione critica che, senza fanatismi
e superando l’apatia consumista, si organizza in gruppi d’acquisto,
combatte ogni forma di spreco, difende l’ambiente e gli animali,
lotta contro gli squilibri sociali è l’avamposto dell’utopia
minimalista.