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venerdì 20 settembre 2024
 
L'alfabeto dell'etica
 

Luigi Zoja: è l'ora dell'utopia minimalista

06/03/2014  Le grandi ideologie massimaliste e i loro eroi (vedi Che Guevara) hanno lasciato macerie. Oggi siamo chiamati a cambiare il mondo attraverso scelte quotidiane, pazienti, non eroiche ma per questo più incisive. La proposta dello psicoanalista per l'11ma puntata della serie "L'alfabeto dell'etica".

L'ALFABETO DELL'ETICA
11. Utopia


Un alfabeto dell'etica contemporanea non può non misurarsi con la questione dell'utopia. La serie  - un'indagine sulle parole e i concetti da riscoprire per orientarsi di fronte alle sfide del nostro tempo - è stata inaugurata dalla conversazione con Laura Boella sull'immaginazione come facoltà morale ed è continuata con l'intervista a Richard Sennett sulla collaborazione quale modalità vincente della convivenza. Poi ha offerto il resoconto della lezione del Dalai Lama sull'"egoismo saggio" e l'intervista a Marc Augé, che identificava nella conoscenza la vocazione più alta dell'uomo. Edgar Morin ha indagato il significato di sviluppo; Roberto Mordacci quello di rispetto; Gabriella Turnaturi quello di vergogna. Gianfranco Marrone aveva svolto uno studio non scontato sulla stupidità. Massimo Recalcati aveva proposto una nuova idea di paternità nell'epoca della morte del padre. Michael Sandel aveva mostrato come la logica del denaro fosse diventata pervasiva della nostra esperienza.

"Che sia possibile un insieme di gesti quotidiani

capaci di opporsi alla degenerazione delle condizioni economiche e ambientali,

senza assolutismi, senza fanatismi, senza sospette passioni viscerali,

è l'incredibile ricchezza di cui forse per la prima volta disponiamo in modo così completo".
(Luigi Zoja, Utopie minimaliste)

Non è semplice la sfida che è stata data in sorte agli uomini e alle donne che vivono l’inizio del XXI secolo.
La nostra cultura è condizionata anzitutto dall’essere erede del passato prossimo, quel Novecento che è stato scandito dall’affermarsi di alcune grandiose ideologie e dal loro dispiegarsi. Sappiamo bene – per esperienza diretta o per la testimonianza dei nostri avi – quali effetti nefasti e devastanti abbiano sortito le utopie che hanno entusiasmato e fatto proseliti fra le vecchie generazioni. Il fallimento e gli orrori provocati del nazismo e dal comunismo ci hanno lasciati disillusi e disincantati rispetto a qualsiasi credo, orfani di un’ideologia plausibile. Si è fatto strada il convincimento che sia preferibile, se non intellettualmente onesto e moralmente doveroso, vivere senza ideologie, senza utopie.

"Beato il Paese che non ha bisogno di eroi", faceva dire a Galileo Bertolt Brecht. Tale disaffezione rispetto all’utopia e all’ideologia ha però di fatto consegnato le nostre società al neoliberismo e al consumismo, a tutti gli effetti una nuova fede che proclama il dogma del profitto e dell’avere come diritto e fonte di felicità. Un sogno di breve durata, questo, che le ricorrenti crisi economiche hanno provveduto a demolire.

Che fare, dunque? Assumendo la categoria dell’utopia come criterio di riferimento, possiamo dire che noi contemporanei ci troviamo stretti fra il fallimento e l’esaurimento delle utopie del Novecento e la constatazione che una rinuncia totale e assoluta ad esse non porta a nulla, solo a quell’utopia mascherata che è il liberismo consumista. Come uscire da questa aporia, esistenziale e culturale? E immaginabile una terza via all’utopia? Tornando alla citazione di Bertolt Brecht: è immaginabile un mondo più desiderabile anche senza eroi, destinati a rovesciarsi in modelli negativi?

All’interrogativo sembra rispondere il testo di uno degli psicoanalisti che, da tempo, tentano di decifrare le dinamiche profonde della nostra società e di individuare strade praticabili per un rinnovamento. Dopo Il gesto di Ettore, Paranoia (entrambi Bollati Boringhieri) e La morte del prossimo (Einaudi), acuta analisi di come l’altro scompaia sempre di più dall’orizzonte dell’io, Luigi Zoja ha pubblicato Utopie minimaliste (Chiarelettere): un sostantivo e un aggettivo che, accostati, aprono suggestivi scenari di discussione.

Una classica iconografia su Che Guevara.
Una classica iconografia su Che Guevara.

Partiamo dalle utopie massimaliste, dalle ideologie totalitarie che hanno dominato il XXI secolo. Il loro fallimento è un drammatico dato storico. A che cosa va attribuito? Qual è la ragione della loro degenerazione?

Ho cercato di indicarla nel capitolo di Utopie minimaliste dedicato a Che Guevara, l’unica persona reale esaminata a fondo nel saggio, anche in maniera provocatoria, dato che è un personaggio molto amato, di moda soprattutto fra le giovani generazioni, che paradossalmente si è trasformato in un inconscio fautore di processi commerciali, essendo diventato un’icona commerciale. Il problema di Che Guevara è quello che nella psicoanalisi si chiama un atteggiamento narcisistico. Tutta la generazione dei marxisti pretendeva di attuare i suoi progetti immediatamente: in questo avverbio è, appunto, contenuto più di un problema e soprattutto una forte dose di narcisismo. Il massimalismo corrisponde nei fatti a una impazienza, a una convinzione che qualunque mezzo è lecito e utile per ottenere l’obiettivo prefissato, a una giustificazione dei mezzi in nome del fine. In realtà, quello che inseguivano i paladini di queste ideologie era una liberazione personale; il loro comportamento celava un aspetto terapeutico inconscio, a volte persino cosciente: Che Guevara ha sostenuto in diverse occasioni che non solo era consapevole, ma addirittuera desiderava andare incontro alla propria morte. E’ giusto? La morte degli altri è sempre ingiusta, ma non lo è anche il volere la propria, pur di vivere una sensazione inebriante? E intanto girava il mondo, amava le donne, faceva figli… Si può dire di amare il popolo, quando si è già deciso di abbandonare i propri figli? Va riconosciuta una componente fortissima di innamoramento del proprio sogno e di indisponibilità a verificarne la fattibilità. Storicamente è accaduto che ogni qual volta l’utopia non era realizzabile nei termini e nei tempi stabiliti, si inasprivano i mezzi, prima minacciando chi la ostacolava, poi mettendolo in galera, infine eliminandolo…

L’impazienza dell’utopista massimalista – ci insegna la storia – è sempre connessa al ricorso alla violenza…

Esattamente. E ciò accade per il rifiuto di confrontarsi con la realtà, per l’incapacità di capire e accettare che le trasformazioni richiedono tempo, passaggi, pazienza. Negli ultimi anni ho lavorato spesso in Argentina e, da fonti dirette, ho appurato che l’amore per il Che si è molto raffreddato. Lo stesso ragionamento possiamo svilupparlo in relazione a un personaggio italiano, Pietro Ingrao. Consideriamo il suo bel libro di memorie Volevo la luna. Non è, questa espressione, una meraviglioso lapsus? Una confessione involontaria? Ingrao racconta che, quand’era bambino, a chi gli chiedeva che cosa desiderasse, rispondeva che voleva la luna e spiega che, una volta diventato adulto, quello è rimasto il suo sogno. Ora, abbiamo bisogno di persone con forti ideali e coraggiose, ma l’esperienza ha dimostrato che non è questa la via più efficace per difendere le aspirazioni degli sfortunati, degli svantaggiati, dei lavoratori. Ognuno ha il diritto di volere la luna per sé: ma in virtù di che cosa ci si arroga il diritto di pretendere anche per loro la luna? Va sempre ricordato che negli anni Sessanta e Settanta, quando si diffuse una cultura rivoluzionaria, l’Europa e il Nord America stavano conseguendo il massimo di uguaglianza sociale mai raggiunta nella storia. Eppure il massimalismo urlava che bisognava andare oltre, accelerare il processo storico, pretendere di più… L’Italia è stato l’unico Paese in cui il movimento progressista è stato monopolizzato dai marxisti e dai massimalisti. Con il risultato che il livello di disuguaglianza sociale non è mai stato così alto come oggi.

Lei cita varie e autorevoli ricerche a suffragio di questa affermazione, i cui effetti, peraltro, sono sotto gli occhi di chiunque. E’ lei stesso a rilevare, tuttavia, come, di fronte all’acuirsi delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali ed economiche, né le classi colte né quelle direttamente toccate si facciano promotrici di rivolte. Nessuno scende in piazza, se non per qualche protesta estemporanea.

E’ il più grande mistero dei nostri tempi. Dalla generazione impegnata, quella che, negli Anni Sessanta e Settanta, era animata, magari ingenuamente, da grandi ideali, siamo passati alla generazione indifferente, preda del consumismo. Si tratta di una generazione senza utopie o post-utopica.

Se vivere ispirati da utopie massimaliste non ha prodotto risultati apprezzabili, anche vivere senza utopie, quindi, sembra non sortire effetti positivi. Anzi, l’uomo che rinuncia all’utopia, lei dice, si espone a una condizione molto insidiosa, l’assuefazione al male, la rassegnazione all’ingiustizia.

In una società senza utopie prevale il cinismo. Lo possiamo verificare in relazione al fenomeno del berlusconismo, che non è stato soltanto il tentativo di sdoganare l’imprenditore come eroe moderno – fatto comprensibile avvenuto anche in altri Paesi – ma anche l’accettazione di una serie di “violazioni” della morale, in ambito economico come personale; accettazione che risulta paradossale in una cultura, come quella italiana, che si connotava per il suo idealismo, la tensione a valori puri, la presenza della cultura cattolica… La tolleranza verso certi comportamenti è spiegabile sono come frutto di una situazione post-ideologica, post-utopica.

Il libro di Luigi Zoja.
Il libro di Luigi Zoja.

Ne possiamo dedurre che l’individuo e le comunità hanno bisogno di utopie, per crescere sani?

Sì, purché non si ricada nell’utopia massimalista, ma si abbracci l’utopia minimalista. Quando il sogno è grandioso, il pericolo è in agguato: abbiamo visto ragazzi all’origine puri e santi che, a un certo punto, hanno preso in mano la pistola. Erano troppo innamorati di sé, anzi del proprio mito. Quei ragazzi non hanno avuto il coraggio e la saggezza dell’utopia minimalista, cioè costruttiva, concreta e paziente. Un’utopia capace di rispettare l’estrema complessità della realtà, che affronta e smonta le ingiustizie passo dopo passo, che riconosce finalmente l’urgenza della tematica ambientale…

Proviamo a elaborare una sorta di “critica dell’utopia minimalista”? Quali sono i suoi elementi costitutivi?

Pone al suo centro la giustizia, da intendere in senso sociale ed economico, certo, ma non esclusivamente in un’accezione antropocentrica. E’ finito il tempo in cui l’uomo pensava di disporre della realtà, che tutto fosse al suo servizio. Alcuni Paesi sudamericani hanno introdotto nella Costituzione il principio secondo cui la Terra non è solo oggetto, ma anche soggetto di diritto. Qualcuno obbietterà che è irrealizzabile. Ma anche nella nostra Costituzione sono enunciati principi non realizzati, ma non per questo meno validi, a partire dal primo articolo, dove si proclama il diritto al lavoro. L’utopia minimalista si sforza di offrire risposte quotidiane, praticabili, visibili in un raggio d’azione che investe le relazioni sociali, economiche, con l’ambiente. Acquistare la frutta dal contadino che conosciamo è un atto di utopia minimalista: privilegia il rapporto umano diretto – l’impersonalità è sempre un fattore del male -, non inquina, taglia fuori l’intermediazione con tutti i rischi di corruzione che implica… Mi piace citare l’esempio del turista in Messico che può scegliere fra la spremuta d’arancia preparata dal contadino e la Coca cola: chi pratica l’utopia minimalista preferirà rivolgersi al banchetto del contadino che alla multinazionale…

Lei scrive che l’utopia minimalista è un percorso individuale di maturazione e crescita, muove il pensiero individuale piuttosto che le masse.

E’ necessario confrontarsi con se stessi, non, come accadde con i giovani del ’68, scendere in piazza per godere di un’ebbrezza, vivere una bella avventura, per poi tornarsene a casa la sera con le macchine… Aveva ragione Pasolini, allora: i poliziotti a cui avevano tirato le pietre erano i veri proletari! L’utopia minimalista deve diventare uno stile di vita quotidiano, cosa che si sta verificando con quella che io chiamo la “generazione critica”: dopo la generazione impegnata e quella indifferente, si sta facendo spazio una minoranza di giovani che, per dirla con un’immagine simbolica, usa la bicicletta anche se ha i soldi per l’auto. D’altra parte, dovremmo tenere a mente che la generazione impegnata rappresentava il 10 per cento dei giovani – come aveva compreso Walter Tobagi, suggerendo che era molto rumorosa e perciò sopravvalutata. Ne è prova il fatto che, esaurita quella spinta, non ha ceduto il testimone a una generazione successiva, ma ha lasciato campo aperto al berlusconismo. La generazione critica che sta germogliando oggi, proviene in larga parte dal ceto medio e rappresenta ancora una minoranza, ma nutrita da una percentuale maggiore di giovani, quantificabile intorno al 20-30 per cento. Si moltiplicano i casi di giovani che compiono, anche con coraggio, scelte di utopia minimalista. So di molti ragazzi con un’alta istruzione che, dopo aver lavorato in istituti finanziari, hanno rinunciato a uno stipendio ricco per mettere la loro competenza a disposizione di associazioni, Ong, movimenti sociali.

Altro tratto costitutivo dell’utopia minimalista è la capacità di fare autocritica.

E’ la conditio sine qua non. Se si ricade nei vecchi errori, si è preda della paranoia, che non è solo una sindrome clinica, ma un atteggiamento universale e potenziale, che può venire rafforzato da certi messaggi politici semplificatori: tutto il male è la borghesia, il capitale, eccetera. L’utopista minimalista non demonizza mai chi la pensa diversamente, ma si confronta, dialoga, cerca mediazioni.

L'annuncio dell'assassinio di Olof Palme di un giornale svedese.
L'annuncio dell'assassinio di Olof Palme di un giornale svedese.

In contrapposizione a Che Guevara, lei indica come modello positivo dell’utopia che sa fare scelte progressive e concrete, misurandosi con la realtà, Olof Palme.

Anche il premier svedese, come l’argentino, morì colpito da arma da fuoco. Era il primo ministro di un Paese importante, fautore di una via di mezzo, una Terza via; uno dei pochi occidentali che non era né filocomunista né prono alla cultura americana. Aveva scelto la politica delle riforme quotidiane, dell’avanzamento passo dopo passo. E’ significativo che la memoria collettiva ricordi Che Guevara, eroe del’utopia massimalista che poco incise sulla realtà, e abbia pressoché dimenticato Olof Palme, eroe dell’utopia minimalista, che con le sue riforme graduali ha straformato una società, fino a ottenere i più alti livelli di uguaglianza ed equilibrio sociale mai raggiunti. In generale le società scandinave hanno saputo svilupparsi sapendo essere al tempo stesso fra le più efficienti a livello economico e le più giuste nella distribuzione della ricchezza. Due primati raggiunti in contemporanea, mentre la cultura liberista li colloca agli antipodi.

Lei indica esplicitamente la socialdemocrazia come la forma politica più atta a realizzare l’utopia minimalista.

E’ una modello che procede per riforme, senza mai interromperle. Gli esempi migliori negli anni recenti li abbiamo visti in Sudamerica. In Brasile, ad esempio - un Paese immenso segnato da profondi squilibri - un Governo socialdemocratico ha favorito consistenti spostamenti di ricchezza, posto le condizioni per la formazione di un nuovo ceto medio, dato stabilità sociale. L’attenzione fondamentale della socialdemocrazia è, o dovrebbe essere, sulla giustizia sociale, sul tentativo di offrire opportunità a chi non ne ha. Possiamo rintracciare vari casi esemplari. Ad esempio la flexsecurity in Danimarca, per cui lo Stato investe ingenti somme non per garantire la cassa interazione a chi perde il lavoro, ma per creare scuole che consentano al disoccupato di riqualificarsi e diventare appetibile nel mercato. Un altro caso ancora è l’investimento nella ricerca e nella creazione di tecnologie ecosostenibili e di energia rinnovabile.

Lei dedica un lungo capitolo al tema delle tasse. In che modo hanno a che fare con l’utopia minimalista?

Nell’apparato burocratico dello Stato manca la psicologia, il rispetto delle persone, al punto che l’onnipotenza delle istituzioni ha provocato alcuni suicidi. Si dovrebbe partire da una campagna informativa, per istruire sul fatto che le tasse moderne sono l’erede naturale della cooperazione sociale, essenziale per la vita di ogni comunità. Una volta ci si consorziava per accaparrarsi e distribuire l’acqua; oggi, in una società più complessa, non ha senso procedere all’abolizione della proprietà privata, come suggerivano Marx o Rousseau, bensì autorizzare il prelievo da parte dello Stato. Purtroppo è venuto meno il rapporto di fiducia fra cittadino e Stato, e con quello, si è perso il senso della tassa. Ho vissuto un paio d’anni alla periferia di New York, dove si pagava una tassa piuttosto forte sulla casa a sostegno della scuola locale. Era più gravosa di quella sul reddito, dovuta alla Stato federale, e andava pagata a un ufficio locale. Ogni cittadino poteva vedere con i propri occhi come venivano utilizzati i soldi che versava, tanto che, quando si parlò di aumentarla per acquistare nuovi computer, fu indetto un referendum. Ancora, quando, dopo aver vissuto dieci anni in Svizzera, tornai in Italia, mi vidi recapitare un assegno in franchi: era la parte di bollo di circolazione di cui non avevo usufruito, essendomi trasferito. Nulla a che vedere con l’impersonale burocrazia italiana…

Quando recensii il suo La morte del prossimo, avevo rilevato come alla sottile analisi del deterioramento del nostro rapporto con gli altri, non corrispondesse una proposta costruttiva. Possiamo considerare l’utopia minimalista come la sua pars construens?

Spero di sì. Ho voluto evocare un’immagine, che ogni individuo deve calare nella propria esperienza personale e quotidiana, per maturare scelte concrete, piccole ma significative. La generazione critica che, senza fanatismi e superando l’apatia consumista, si organizza in gruppi d’acquisto, combatte ogni forma di spreco, difende l’ambiente e gli animali, lotta contro gli squilibri sociali è l’avamposto dell’utopia minimalista.

 

 

 



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