Aleksandr Lukashenko.
Le condanne, l’isolamento internazionale, le sanzioni della Ue. Contro Aleksandr Lukashenko e le elezioni truccate con cui ha conservato il potere nel 2020 è stato tentato di tutto. Da mesi, però, il boss bielorusso sta mettendo in atto una sua raffinata vendetta, andando a toccare uno dei nervi più scoperti dell’Europa in generale e dei Paesi dell’ex Est europeo in particolare: i flussi migratori. Migliaia di migranti, in gran parte originari del Medio Oriente (soprattutto dell’Iraq) chiedono e ottengono un visto bielorusso per poi cercare di passare illegalmente nei Paesi confinanti, Lituania e Polonia, e ritrovarsi così nel territorio dell’Unione Europea. Un’ennesima rotta della disperazione che Lukashenko sfrutta per mettere in imbarazzo i Paesi con cui ha i contrasti più aspri e vistosi.
In pochi mesi, nel 2021, sotto lo sguardo benevolo delle guardie di frontiera bielorusse quasi 4 mila persone sono entrate in Lituania, contro le 81 dell’intero 2020. In risposta, la Lituania ha chiesto aiuti alla Ue e ha minaccia di costruire un muro di separazione con la Bielorussia, cosa che andrebbe contro i principi della stessa Unione Europea di cui il piccolo (3 milioni scarsi di abitanti) Stato baltico fa parte. Ora lo stesso fenomeno si ripete al confine con la Polonia, che ha dovuto dispiegare quasi 20 mila uomini, tra soldati, guardie di frontiera e poliziotti, per respingere i migranti.
Lukashenko, però, non è il primo a sfruttare con fini politici la disperazione di chi cerca di una vita migliore. Fidel Castro organizzò da Cuba due migrazioni di massa che crearono problemi agli Stati Uniti. Il primo fu il cosiddetto “esodo di Mariel”, dal nome del porto da cui, tra aprile e ottobre 1980, più di 125 mila cubani salparono per raggiungere la Florida. Alla base del flusso c’era un accordo destinato ad alleviare la crisi economica di Cuba. Finché il presidente Usa, Jimmy Carter, si accorse che i “marielitos” non erano dissidenti, anzi: erano per lo più ex detenuti e ospiti di ospedali psichiatrici, che Castro aveva così scaricato in casa d’altri. Qualcosa di simile avvenne anche nel 1994 con i cosiddetti “balseros”, cubani che attraversavano il mare su imbarcazioni di fortuna. Furono 20 mila in pochi mesi, un’ondata che spinse Bill Clinton a siglare con Castro l’accordo detto “wet feet, dry feet” (piedi bagnati, piedi asciutti), ovvero: accoglienza per i cubani che riuscivano a sbarcare sul suolo Usa e rimpatrio per quelli intercettati in mare.
Ancora più vicini a noi sono i casi della Siria e della Libia. Paesi investiti da una lunga guerra civile con la pesantissima intromissione di potenze esterne. Inevitabile quindi il dissesto della struttura sociale. In Siria si è manifestato con un numero di profughi (6,7 milioni di rifugiati interni, dati Unhcr) e rifugiati (5,6 milioni, in gran parte in Libano, Turchia e Giordania) pari in pratica metà della popolazione. In Libia, con la frammentazione del Paese, prima spartito tra bande e fazioni e infine diviso tra due potentati, quello dell’Esercito Nazionale Libico guidato dal generale Haftar e quello del Governo di Tripoli. Anche in queste condizioni drammatiche, dietro i movimenti dei profughi si è spesso intuita una precisa regia.
Nel Nord della Siria, lo stillicidio di bombardamenti dell’esercito di Bashar al-Assad e dell’aviazione russa ha generato un flusso migratorio che da un lato ha indebolito la parte curda del Paese, tradizionalmente ribelle, e insieme ha creato un grosso problema alla Turchia. Recep Tayyep Erdogan, a sua volta, è stato cinico e abile nel rivoltarlo contro l’Unione Europea, usando i profughi siriani come una leva di trattativa politica. La crisi della primavera 2020, con l’assalto ai campi profughi della Grecia usato da Erdogan a scopo dimostrativo, ne è stato un esempio lampante.
Qualcosa di analogo, però, è successo anche nell’Ovest della Siria. Un gran numero di profughi ha valicato le montagne al confine con il Libano, spinto dal conflitto ma anche richiamato dalle organizzazioni sunnite libanesi e siriane, finanziate dai Paesi arabi e spesso collegate ai gruppi di insorti siriani. Una rete che, oltre al soccorso immediato, aveva anche lo scopo di far affluire in Libano migliaia e migliaia di sunniti per “compensare” l’influenza degli sciiti e di Hezbollah, il loro ramo politico e militare. Risultato: 900 mila profughi siriani “ufficiali” in Libano (ma con quelli non censiti si arriva a un milione e mezzo), disordini, scontri soprattutto nella zona di Tripoli (dove c’è anche Nahr al-Bared, il campo profughi con 30 mila palestinesi, anche loro sunniti e oggetto di infinite manovre) e un disagio sociale tanto più pesante per un Paese già devastato dalla crisi politica ed economica.
In Libia, il “trucco” geopolitico sulla pelle di profughi e migranti è stato ancor più evidente. Il generale Haftar, che controlla il Sud, ha le mani sul rubinetto dei flussi che arrivano dai Paesi del Sahel, in particolare Niger, Mali, Ciad e Sudan, e lo regola a piacere, incassando cospicui “diritti di transito” dai trafficanti di esseri umani. Già quattro o cinque anni fa le milizie pretendevano almeno mille euro per ogni migrante avviato dal deserto verso il Mediterraneo, un giro d’affari che si valuta in miliardi di dollari. A loro volta, i poteri forti che sostenevano il Governo tripolino di Fayez Al-Sarraj gestivano il flusso in arrivo da Sud, pronto a sfidare le onde per arrivare in Europa, in modo da ottenere dalla Ue e dall’Italia concessioni politiche ed economiche. Il regolare rinnovo (l’ultimo con il voto del Parlamento il 15 luglio scorso) del criticatissimo memorandum d’intesa siglato con la Libia dal Governo Gentiloni nel 2017, è la più lampante dimostrazione di quanto “pesino” i migranti sulle relazioni politiche internazionali.