Poco dopo che fu eletto presidente nel Sudafrica del dopo apartheid, Nelson
Mandela telefonò alla vedova di Hendrik Verwoerd, “il padre dell’apartheid”, e
la invitò per il tè. Lei rifiutò.
Cosa poteva aspettarsi? Dopo tutto lui, Mandela, era un terrorista
condannato, con un trascorso di 27 anni di prigione. Loro erano Afrikaners
irriducibili e il marito di Betsie era stato largamente responsabile dello
“sviluppo della politica separatista” per il Sudafrica, come veniva chiamato
l’apartheid dal governo.
Mandela, comunque, non era uno che accettava un no per risposta. Sapeva che
la signora Verwoerd aveva 94 anni e che viveva in un remoto insediamento per
“soli bianchi”, chiamato Oranje, nell’arido Northern Cape, così prese un aereo
e andò a trovarla.
La piccola comunità di irriducibili fu sopraffatta dalla visita del
presidente. Questo dolce e tenero vecchietto era davvero un terrorista? Non
solo Betsie Verwoerd prese il té con lui, ma tutta la comunità lo accolse così
calorosamente che Mandela non poté fare a meno di osservare: «Saremmo potuti
essere a Soweto…» (una città nera vicino a Johannesburg).
La sua visita ebbe esattamente l’impatto sperato. Era il 1995, l’anno
precedente aveva avuto luogo la prima elezione multietnica, ma il Paese
rimaneva profondamente diviso. Impegnato a costruire una nazione unita, Mandela
sapeva che era necessario fare qualcosa per superare le piaghe del passato. Si
imbarcò in una missione di riconciliazione, incontrando gente proveniente da
ogni posizione sociale per parlare di perdono, riconciliazione e unità. E uno
dei suoi principali sostenitori era l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, che a
lungo salutò la coscienza morale del Sudafrica, fu l’uomo che chiamò il
Sudafrica “la nazione dell’arcobaleno”.
I due non si erano conosciuti da giovani. Quando Mandela fu accusato di
tradimento, nei primi anni Sessanta, Tutu era già stato ordinato prete, e si
trovava in Inghilterra a studiare per un master in teologia. Il sacerdote
rifiutava la violenza, cionondimeno condusse un’aspra campagna contro
l’apartheid anche se promuoveva la responsabilità socio-politica dei cristiani.
Mandela, il combattente di un tempo, e Tutu, il sacerdote devoto, possono
essere stati un tempo in posizioni diametralmente opposte nel risolvere la
questione dell’apartheid, ma oggi impersonificano la riconciliazione e l’amore
di vicinanza.
Mandela, un cristiano – battezzato come metodista – fu accusato di
tradimento, perché aveva scelto di lottare e di morire per la libertà. Tutu, in
egual modo impegnato nella lotta contro l’apartheid, era convinto che la fede
in Dio fosse la soluzione.
La storia narra che quando gli fu chiesto in che modo la Chiesa Internazionale
avrebbe potuto aiutare a superare l’apartheid, Tutu rispose: «Avete provato con
la preghiera?».
Non c’è dubbio che la lunga prigionia abbia avuto un forte impatto su Nelson
Mandela. Una volta ottenuta la garanzia di un governo democratico, tutto ciò
che desiderava era una nazione unita. Sollecitò i bianchi sudafricani, timorosi
di vivere in una nazione con un governo a maggioranza nera, a non emigrare, ma
a restare per aiutare a ricostruire il Paese.
Inoltre, mentre desiderava la riconciliazione fra le razze, non ignorava
quali gravi violazioni dei diritti umani, odio, paura e colpe del passato era
necessario superare se i Sudafricani, irrispettosi del colore, della razza, del
credo o del genere, volevano vivere insieme in pace. «La riconciliazione»,
diceva Mandela, «non significa dimenticare o cercare di seppellire il passato,
ma camminare insieme come un’unica nazione».
Fu istituita una Commissione per
la Verità e la Riconciliazione con il mandato di supportare le testimonianze,
le registrazioni e, in alcuni casi, di garantire l’amnistia verso i
responsabili dei crimini connessi alle violazioni dei diritti umani, e allo
stesso modo di favorire la riparazione e la riabilitazione.
* Winnie Graham è giornalista del quotidiano The Star di Johannesburg.
** Traduzione di Francesca Fabris.