Per gentile concessione dell'editore pubblichiamo l'editoriale apparso sul'ultimo numero del periodico "Comunità di connessioni" a firma del direttore padre Francesco Occhetta.
Sergio Mattarella è stato rieletto Presidente della Repubblica. Era il sogno nascosto della cultura politica moderata che si rispecchia nella sua testimonianza, nella sua fedeltà alle istituzioni e nell’amore verso la Costituzione. Lo sussurravamo in molti e con prudenza, per non pesare sul sacrificio che veniva chiesto alla sua persona. Con questa elezione c’è però anche un intero sistema politico bloccato e imploso nei giorni delle votazioni che spera forse di vedere posticipata la sua ricostruzione. Posticipata soltanto, però: in questo tempo sono affiorate, come nodi al pettine, tutte le tensioni irrisolte del sistema, che qui ci limitiamo a ricordare.
I leader di partito escono depotenziati nel loro ruolo, considerato con sospetto dai gruppi parlamentari e vissuto dal corpo sociale con disillusione e desolazione. L’elezione di Sergio Mattarella è avvenuta grazie a un colpo di frusta dei parlamentari, che in ogni votazione lo hanno votato al di là delle indicazioni dei partiti. Certo, Salvini e Conte pagano il prezzo dei loro azzardi. Renzi e Berlusconi rimangono maestri in tattica ma parziali nella loro visione d’insieme. Letta resta schiacciato tra le correnti interne del Pd e le ambiguità dei suoi alleati. Giocoforza Giorgia Meloni ha sfidato tutti, richiamando la responsabilità delle altre forze di Governo di scegliere il presidente della Repubblica.
È per questo che la scelta di Mattarella non costituisce per il mondo politico un passo avanti, ma solo la garanzia dello status quo e (dal loro punto di vista) il male minore.
In questo copione già scritto, in cui si è tuttavia dovuto esplorare strade nuove, troppi nomi autorevoli sono stati bruciati. Avveniva anche in passato, ma i candidati scelti rappresentavano una storia e un’appartenenza precise. In questa elezione, invece di riconoscere il cursus honorum dei candidati si è scelto di strumentalizzarne i nomi per testare equilibri politici e per trovare un accordo che andasse oltre l’elezione del Presidente: la fine della legislatura, il rimpasto di governo, il nome per il vertice del Csm, la legge elettorale, le riforme che mancano e così via. Ma c’è di più. È stato un errore servirsi dell’elezione del Presidente per vagliare un test politico: quello tra il bipolarismo e il centrismo. Invece di considerare l’elezione del Presidente come una sorta di “salvavita” dell’impianto costituzionale, i partiti l’hanno trasformata nell’interruttore di accensione generale di un sistema che va oltre la natura dell’elezione.
La cultura populista ha influito e negato l’arte della mediazione per premiare “l’uno vale uno”. Mentre, ricordava Moro, “per fare le cose ci vuole il tempo che ci vuole”. Il labirinto generato ha a sua volta creato un assurdo di veti incrociati, in cui tutti sono rimasti potenzialmente eleggibili e nessuno ha potuto essere eletto. L’unico super partes, perché fuori dal gioco, rimaneva il Presidente uscente. Così la dura e nobile elezione del Presidente della Repubblica è stata trasformata in una sorta di squid game, in cui i segretari di partito hanno ascoltato con un orecchio l’umore dei grandi elettori e con l’altro le voci confuse dei social. Le conferenze stampa di Matteo Salvini durante l’elezione sono solo un esempio della sindrome bipolare di cui soffre la politica.
Altro segnale dalla dinamica di questa elezione: candidati come il Presidente del Consiglio Draghi o la Ministra Cartabia non sono stati considerati candidati politici perché non sono mai stati personaggi “partitici”, mentre hanno il merito di aver cambiato il destino del Paese nei campi dell’economia, della politica estera e della giustizia. Il Paese rischia di implodere sulla sanità e sulla scuola, ha il tasso di laureati più basso dell’UE, non investe nella cultura del lavoro ed è il più anziano al mondo con il Giappone: a causa della denatalità trascurata per anni e solo ultimamente tematizzata con politiche serie, tra 30 anni gli italiani saranno solamente 30 milioni.
Mentre i processi dal basso restano molto deboli a causa delle omissioni di molti, varrebbe forse la pena di sperimentare un processo di rinnovamento dall’alto. La dinamica del voto indica inequivocabilmente la crisi culturale della politica e l’implosione di un modello che è destinato a lasciare spazio a uno nuovo. Ci chiediamo se non sia l’istituto della Presidenza della Repubblica ad aiutare la metamorfosi in corso, in cui il bruco sta lasciando spazio alla farfalla. Se ci voltiamo indietro per aiutarci a guardare avanti, i 74 anni di vita repubblicana ci insegnano che il Presidente è figlio del Parlamento e padre del Governo. Sono stati i Presidenti a fare la qualità della presidenza, nella cornice dei paletti costituzionali voluti dagli articoli 83-91 della Costituzione.
Tra il detto e il non detto sulle funzioni del Presidente rimangono interpretazioni tecniche e politiche ancora molto divergenti. Durante i lavori della Costituente erano più chiari i limiti rispetto ai poteri da affidare al Presidente. Allora si temeva il pericolo del bonapartismo, dell’hitlerismo o lo spettro della dittatura. Il timore dell’uomo forte portò ad abbozzare la figura del Presidente senza darle colore. Poi, nel tempo, i suoi poteri si sono dilatati “a fisarmonica” per assumere compiti sia di garanzia e di controllo, sia di intervento e di impulso, sia di gestione delle crisi di governo e parlamentari. Potremo sperare in un nuovo processo se si formerà un movimento culturale intorno alla Presidenza. Il Presidente della Repubblica ha assunto un ruolo di ponte e di mediatore sociale, ha un ruolo di porta sull’Europa e rimane la voce della coscienza sociale.
Attraverso discorsi, visite, colloqui ed altre forme di moral suasion il Presidente è la voce laica di quella coscienza che distingue sul piano costituzionale il bene dal male, le scelte umane da quelle disumane. Oggi è richiesto che abbia un ruolo di enzima sociale e politico per mettere insieme le forze sane del Paese: solo l’impegno sociale e politico di tutti può aiutare il Paese a riprendere autoconsapevolezza e direzionalità, a respirare l’Europa e a rimodellare la sua presenza nel Patto atlantico. Le votazioni sul nuovo Presidente della Repubblica impongono alla cultura italiana una domanda che in pochi si sono posti: di quali riforme ha bisogno la figura ibrida del Presidente, che è garante e governante, àncora di salvataggio nelle crisi istituzionali e rappresentante dell’unità nazionale? Quale riforma è necessaria sull’istituto del Presidente della Repubblica per superare l’inerzia dei partiti, le tensioni tra i poteri dello Stato e aiutare la società a ritrovare fiducia e voglia di ricostruire?